Purtroppo sono sempre i numeri ad inquadrare, nella loro freddezza, la gravità di un fenomeno. E quello della chiusura dei negozi con la conseguente desertificazione di città e centri storici, è una realtà sempre più concreta a Como. Le cifre fornite dalla Confcommercio evidenziano come i negozi al dettaglio in centro storico fossero 432 nel 2012, scesi a 380 nel 2019 per poi arrivare a quota 354 a metà 2022. Fuori dal centro storico, invece gli esercizi al dettaglio erano 450 dieci anni fa, poi sono scesi a 388 nel 2019, fino ad attestarsi a 384 l’anno scorso.
Ecco allora che acquistano sempre maggior importanza le parole di Marco Cassina, presidente di Federmoda di Confcommercio Como che sottolinea comunque come non sia “troppo tardi per invertire la rotta purché si intervenga rapidamente”.
Inevitabile domandare come si è potuti arrivare a una realtà come quella attuale. “Un grande ruolo lo ha giocato la politica. A mio avviso non c’è mai stata una volontà precisa nel voler salvaguardare il commercio di vicinato e di conseguenza si è sottostimato anche un fenomeno come, appunto, la desertificazione. E, per assurdo, il peso che può giocare la disoccupazione è minimo perché, ad esempio in città come la nostra, in molte attività si fatica a trovare personale”.
Sicuramente decisivo è invece nelle parole di Cassina il “tema sociale. Prioritario è e sarà agire per salvaguardare i centri storici e quindi chi ci vive. Per farlo bisogna renderli più sicuri, banalmente mi verrebbe da dire più illuminati. Inoltre bisognerebbe anche favorire la facilità nel poter raggiungere i negozi da parte di chi magari è anziano. Tutti elementi che sono stati sottostimati e che lentamente hanno spento i centri”. E intanto, con il passare degli anni “si è sempre più acceso un paesaggio urbano identico e fatto di grandi centri commerciali. Basta vedere le maggiori direttrici di ingresso a Como, da via Pasquale Paoli a Tavernerio, dove c’è un susseguirsi di grandi aree commerciali che poi, a loro volta, si fanno spietata concorrenza”.
E quindi viene spontaneo chiedere cosa si può fare. “La politica deve agire, ci vuole una chiara volontà in tal senso. La Lombardia, è vero, ha fatto molto, ad esempio, per i negozi storici ma si deve fare di più e anche diversamente. Penso ad alcune idee come l’ipotesi di prevedere benefici fiscali per chi apre e investe in attività commerciali e poi anche tutele maggiori quando si parla di rinnovi degli affitti per chi magari è negli stessi locali da molto tempo, favorendo così il proprietario a mandare avanti l’attività – analizza Cassina – e ancora, forse se nei nei negozi a gestione famigliare qualcuno ha intenzione di proseguire, come magari anche un dipendente storico, andrebbero studiate vie per sostenere questa volontà e facilitarla, così da non perdere quanto costruito negli anni”. Diverse idee dunque che sembrano purtroppo andare a sbattere contro i numeri impressionanti forniti da Confcommercio. “Fanno impressione, è vero, ma c’è ancora tempo per intervenire. Decisivo studiare un insieme di strumenti che possano essere utili a raggiungere lo scopo di non spopolare i centri e soprattutto è fondamentale che la politica non si limiti, come purtroppo accade spesso, a studiare magari dei bonus che sono solo rimedi temporanei e non strutturali”.
E un’ultima riflessione emerge anche dall’analisi di quanto accaduto negli ultimi anni, ovvero dalla pandemia e dagli effetti che ha scatenato nella società. “Tutti erano convinti che dopo il lockdown le persone avrebbero ritrovato la voglia e il piacere di uscire, di tornare a popolare quei piccoli negozi che un tempo erano il cuore pulsante delle città. Invece, dopo un prima fase positiva, si è invertita la rotta e si è tornati a fare un ricorso massiccio agli acquisti on line e al massimo spostarsi per andare nei grandi centri commerciali. Anche questo fattore ha influito sul fenomeno della desertificazione”, conclude Marco Cassina.
La strage dei negozi di vicinato in 10 anni ne sono spariti 144
l centro storico ha visto sparire, in dieci anni, settantotto piccoli negozi. E appena superate le mura hanno invece abbassato le serrande per sempre in sessantasei. Una trasformazione in atto dal 2012 al 2022. Risultati allarmanti emersi dall’elaborazione dell’Ufficio studi di Confcommercio basati sui dati del “Centro studi delle Camere di Commercio Tagliacarne”.
I negozi al dettaglio in centro storico erano 432 nel 2012, sono scesi a 380 nel 2019 per poi arrivare a quota 354 a metà 2022. Fuori dal centro, invece, gli esercizi al dettaglio erano 450 dieci anni fa, poi sono scesi a 388 nel 2019, fino ad attestarsi a 384 l’anno scorso. Diverso il discorso per quanto riguarda la voce “Alberghi, bar e ristoranti”. Se nel 2012 erano 324 in centro storico, nel 2019 erano aumentati a 343 per poi ridiscendere (ma pur sempre su un dato più alto rispetto a 10 anni fa) fino a 330 nel 2022. Per la stessa categoria, ma fuori dal centro storico, si è passati dai 309 del 2012, ai 288 del 2019 fino a risalire a 301 a metà 2022 ma restando sotto il numero di partenza. Colpisce però la voce “servizi di alloggio” che vede il centro storico passare dai 30 del 2012 ai 63 del 2022 (da 21 a 45 fuori dal centro).
Dando uno sguardo alla realtà italiana, sempre tra il 2012 e il 2022 sono sparite, complessivamente, oltre 99mila attività di commercio al dettaglio e 16mila imprese di commercio ambulante; in crescita alberghi, bar e ristoranti (+10.275); nello stesso periodo, cresce la presenza straniera nel commercio, sia come numero di imprese (+44mila), sia come occupati (+107mila) e si riducono le attività e gli occupati italiani (rispettivamente -138mila e -148mila).
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Un commento
Ma quale politica, dopo le grandi crisi i prezzi dei locali sono sempre molto molto alti, quali attività si possono permettere certi costi? In più la politica ha la colpa di lasciare libero spazio ad attività di dubbia fruibilità e, soprattutto, dubbia legalità. Non sono contrario ad attività svolte da stranieri, ma mi chiedo come possano rimanere aperti negozi di alimentari o ristorazione sempre sempre vuoti…