Intervista di Barbara Pirovano
La continua pubblicazione di bandi regionali, gli incentivi per chi sceglie paesi più piccoli e periferici e il costante aumento dei massimali per accettare nuovi pazienti sono solo dei palliativi per tamponare la cronica carenza dei medici di base. Una situazione che ormai si protrae da anni e per la quale non sembra stagliarsi all’orizzonte una rapida ed efficace soluzione.
A confermare la necessità di un cambiamento dell’intero sistema che governa la sanità territoriale per poter sperare di riportare a pieno regime un servizio che da troppo tempo zoppica vistosamente, è anche Gianluigi Spata, il presidente dell’ordine dei medici comaschi.
Dottor Spata, com’è la situazione sul nostro territorio?
Questo vuoto è un problema nazionale, non solo regionale, dunque si avverte anche da noi. Nella nostra Ats (Insubria, Ndr) ci sono circa 140 posti vacanti e solo in provincia di Como sono una settantina gli ambulatori senza professionisti di ruolo. Numeri che, tra l’altro, tendono ad aumentare, complici i pensionamenti e anche le rinunce da parte di coloro che spesso non accettano l’incarico che gli viene assegnato.
Come si spiega questo fuggi fuggi generale?
La medicina del territorio non risulta più attrattiva ormai da tempo perché ricoprire questo ruolo significa scontrarsi spesso con la troppa burocrazia e accettare uno stipendio che non è proporzionale alle responsabilità che si hanno. A questo, va aggiunta un’ulteriore crisi conseguente alla pandemia, perché il settore è sempre più sotto stress e sottodimensionato.
Come si è giunti a una situazione simile e cosa si potrebbe fare per provare a risollevare le sorti di una professione così importante ma, in questo momento, così svilita?
Già dieci anni fa la Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici segnalò il problema ai Ministeri di competenza ma furono richieste ignorate. Alla base c’è un percorso formativo che non funziona e che andrebbe riformato completamente. La politica si interroga sul togliere o meno il numero chiuso per accedere a certe facoltà, come quella di Medicina, ma non è questo il punto centrale del problema. Andrebbero per esempio valorizzate le borse di studio, quello sì. C’è una grossa differenza tra quelle da 2000 euro, riservate agli studenti che scelgono una scuola di specializzazione, rispetto a quelle da circa 900 euro che invece vengono assegnate a chi sceglie una formazione per diventare medico di medicina generale. Se non si dà pari dignità e valore a entrambi i percorsi si compie già alla base una discriminazione che non ha senso.
Quali i passi più importanti da seguire dunque per migliorare il servizio sul territorio?
Come detto, oltre a ridare dignità e professionalità al percorso di formazione, serve anche una riorganizzazione generale e seria. Per farlo, bisogna prima partire da un’analisi del fabbisogno in modo da comprendere a pieno la richiesta effettiva del territorio. Inoltre credo che, dopo 10 anni di studio e una specializzazione, i giovani debbano essere messi nella condizione di poter subentrare più agevolmente e direttamente nel mondo del lavoro.
L’Accordo Integrativo Regionale prevede degli incentivi economici per i medici impegnati nelle aree più periferiche oppure la creazione di ambulatori medici temporanei per accorpare le risorse. Queste misure hanno una loro utilità?
Assolutamente sì, non lo nego. Ma va anche detto che sono provvedimenti utili a salvare almeno l’esistente, a metterci una pezza, per dirlo in poche parole. Non possono però essere considerate delle soluzioni. In questo modo, tra l’altro, alcuni medici sono arrivati anche ad avere oltre 2000 pazienti. Un numero assurdamente alto che ci impone ogni giorno di fare l’impossibile per garantire la nostra presenza a tutti gli assistiti.