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Il gigantesco piano cinese per Como: una bachicolutura industriale robotica. Brenna: “Amano il brand Lago di Como”

Se vi venissero a raccontare che i cinesi si sono messi in testa di produrre la seta in Italia, cosa pensereste? A uno scherzo, ovviamente. Ma come, una vita che importiamo seta dalla Cina e adesso scopriamo – o meglio, scoprono – che è meglio produrla nel nostro Paese? E non in un posto qualsiasi, ma proprio a Como.

Tutto è cominciato l’anno scorso, quando la cooperativa Tikvà, con la collaborazione di numerosi partner, ha dato vita al progetto #bacomania con lo scopo di promuovere la conoscenza della gelsibachicoltura e di far rinascere, sul nostro territorio, una piccola filiera produttiva della seta “a km zero”. E poi sono arrivati i cinesi a immaginarsela in grande e a dirci che il made in Italy è bello sì, ma il made in Como è molto meglio.

“Qualche tempo fa, attraverso la pagina Facebook del progetto Bacomania, siamo stati contattati da una società di intermediazione cinese, la Italia Fortuna Development – racconta Francesca Paini, presidente di Tikvà e anima e cuore del progetto – e i questi giorni una loro delegazione è venuta a trovarci per raccontarci la loro idea: realizzare sul nostro territorio una bachicoltura industriale quasi interamente meccanizzata, con un ricorso minimo al lavoro umano, per arrivare a produrre una fibra di seta corta per la produzione di una sorta di tessuto non tessuto”.

Ma perché proprio qui? “E’ la domanda che abbiamo fatto anche noi – dice l’imprenditore tessile e presidente della Fondazione Setificio Graziano Brenna, presente all’incontro – qui la manodopera è molto più costosa che in Cina e il clima è meno favorevole alla coltivazione dei gelsi. E la risposta è stata chiara: perché il brand del lago di Como è un valore aggiunto che va oltre ogni difficoltà”.

Graziano Brenna, al centro

E così dimenticate i filari di gelsi dei nostri nonni e i bachi sulle lettiere in solaio, qui si parla di 60 ettari di gelsi, 10mila mq di capannone per l’allevamento dei bachi e una filiera quasi interamente meccanizzata, dalla raccolta delle foglie alla produzione del tessuto.

“Nella mia testa c’è una vocina che mi grida ‘Lo sapevo che si poteva fare!’ – dice Francesca – avevamo già fatto un esperimento con il progetto della bachicoltura industriale di Cassina Rizzardi e mi mordo un po’ le mani perché la seta Made in Italy potevamo farla noi italiani, bisognava crederci. Ora l’unica via che possiamo percorrere, secondo me, è trovare il modo di fare nostro questo progetto: loro cercano, oltre a terreno e capannone, una partecipazione pubblica per creare una società a capitale misto italiano-cinese e siamo ripromessi di fare da tramite con alcuni enti pubblici ma se saremo soci al 49% avremo già perso in partenza”.

“Abbiamo spiegato loro che ci sono diverse realtà che potrebbero essere d’appoggio come l’Università dell’Insubria, il Centro Tessile Serico, il Museo della Seta, ComoNext ad esempio. Una volta capite le dimensioni del progetto, vedremo se può nascere anche una partnership. Se sor rose fioriranno”, conclude Benna.

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