“Il sapere si tramandava di padre in figlio, non veniva divulgato ma protetto. Le opere dovevano sposarsi e danzare con l’anima del luogo che li ospitava. Bisognava credere nelle proprie capacità e avere la sicurezza interiore che il proprio lavoro avrebbe giovato al bene comune: questo erano i Magistri Cumacini”.
Gli occhi chiari di Bruno Gandola, settantottenne di Cerano d’Intelvi ed erede della scuola dei Magistri Comacini, si illuminano di orgoglio mantenendo quell’umiltà che accompagna solo i grandi.
“Discendo dai Gandola, famiglia che apparteneva alla scuola dei Magistri – racconta – e sin da piccolo gironzolavo in bottega come garzone osservando, provando, lavorando. Ciò che mi stupiva – prosegue – era la facilità con cui dipingevano e modellavano i materiali. Ne fui incantato e venne molto naturale avvicinarmi a questo tipo di arte”.
Una delle prime notizie sui Magistri Cumacini arrivano con L’Editto di Rotari nel 643. Una corporazione di costruttori, muratori, stuccatori e artisti itineranti, originari della zona di Como, che contribuirono alla creazione e alla diffusione dell’architettura romanica in Italia e in Europa.
“Con l’apertura dell’Accademia di Brera nel 1776, le botteghe persero il loro ruolo educativo – continua – successivamente caddero le grandi famiglie che finanziavano i lavori dei Magistri, infine cambiò il gusto architettonico. Questi elementi portarono a un progressivo declino”.
E proprio all’Accademia di Brera, Bruno Gandola trova una sua dimensione insegnando tecniche murarie e dei materiali dal 1972 al 2007.
“Ho portato lo spirito della scuola dei Magistri all’interno dell’Accademia – racconta – stimolando uno sguardo critico capace di cogliere la differenza tra un tecnico e un artista. Ho avuto – continua – studenti da tutto il mondo. Ricordo il talento di alcuni ragazzi albanesi arrivati con mezzi di fortuna ma pieni di straordinarie capacità”.
Ma come prendevano vita le opere dei Magistri?
“Si stendeva un progetto – prosegue – che doveva sposarsi con l’ambiente e si sentiva il parere di molti esperti, teologi, storici e committenti stessi. I più giovani – continua – lavoravano sugli elementi più semplici poi intervenivano i Maestri che finivano e uniformavano l’opera. Tra i loro capolavori posso citare senz’altro la chiesa di Santa Maria a Scaria d’Intelvi. Le loro opere erano fatte per durare, quelle odierne per apparire”.
Negli anni Gandola si occupa di restauro ma anche di pittura, scultura, vetrate, ceramiche e oreficeria mantenendo vivi i preziosi insegnamenti ricevuti.
“Tutto parte da un’immagine su cui focalizzo la mia attenzione –racconta – poi prendo gli strumenti: un pennellaccio, un chiodo e un pezzo di legno. Li uso come una spada. Attacco la materia e creo, liberando il pensiero, diventando un tutt’uno con l’energia creativa – e quella stessa energia lo accende mentre parla – poi mi fermo, osservo e riparto. Vado avanti fino a quando l’opera raggiunge la perfezione che cercavo. A quel punto la lascio andare, non mi appartiene più”.
Il desiderio di tramandare l’arte dei Magistri spinge Bruno Gandola e sua moglie Floriana Spalla, anche lei docente all’Accademia di Brera, ad aprire nel 1982 il Museo dello Stucco e della Scagliola intelvese a Cerano d’Intelvi.
“Il museo raccoglie molte opere dei Maestri – conclude – offre gratuitamente opere di restauro dei beni culturali e regala visibilità a giovani talenti. Siamo tutti volontari, la nostra ricompensa consiste nel valorizzare l’arte”.