Quello di Roberto Invernizzi, instancabile alpinista di Nesso, era un sogno nel cassetto dipinto di bianco: come la neve e il rumore che lo hanno accompagnato per quasi un mese nella scalata per conquistare la montagna più alta della Terra.
Roberto era pronto a raggiungere la vetta dell’Everest: nelle scorse settimane aveva messo tutte le sue energie per cercare di vincere questa enorme sfida che pochi possono annoverare tra le proprie vittorie. A causa di un imprevisto, però, era stato costretto a fermarsi per qualche giorno al campo base dell’Everest in attesa di ritentare la scalata nei primi giorni di maggio.
“Sono al campo base dell’Everest (a quota 5.365 metri, Ndr) con mia moglie Ombretta che mi aspetterà qui. Sto recuperando una distorsione alla caviglia destra ma conto di salire ai campi alti nei primi giorni di maggio”, ci aveva detto Roberto nell’intervista pubblicata su ComoZero settimanale lo scorso venerdì.
Poi, però, la triste notizia che ha dato lo stop (per ora) al grande sogno di Roberto. “Con grande rammarico saluto il team – ha scritto oggi l’alpinista di Nesso – troppo dolore alla caviglia per continuare, troppo il rischio di vita in altissima quota per me, lo Sherpa e la squadra, ieri sono stato prelevato dal campo base con l’elicottero e portato all’ospedale di Katmandu per i controlli del caso. Lesione dei legamenti e assoluto riposo, non posso fare altro che tornare a casa”.
E ha aggiunto: “Con il morale sotto ai piedi lascio questa incredibile avventura, so che sarà difficile in futuro riprovarci visto il lungo tempo necessario alla preparazione fisica, mentale ed il costo non indifferente. Grazie a Furtenback veramente punto di riferimento a livello mondiale per l’organizzazione impeccabile sotto ogni punto di vista. Grazie ancora a tutti gli amici/fans per il sostegno che non credevo di ricevere. Tra qualche giorno tornerò a casa dai miei figli convalescente ma salvo, questa è l’unica cosa che conta davvero…Per il resto mai dire mai”.
Nesso e tutto il Comasco stavano seguendo con passione Roberto, supportandolo a distanza nella sua impresa più grande: partito l’8 aprile per il Nepal, grazie all’aiuto del team Furtenback Adventure aveva iniziato la scalata verso il tetto del mondo fino ad arrivare pochi giorni fa al campo base dell’Everest, a quota 5.365 metri, pronto per la sfida finale.
Secondo i dati raccolti dall’alpinista e scrittore Davide Chiesa, sono 69 gli italiani arrivati a toccare la vetta dell’Everest (oltre 8.848 metri) nel periodo dal 1953 al 2017. Il celebre alpinista comasco adottivo Guido Monzino guidò la prima ascensione all’Everest nel 1973 e Graziano Bianchi, conosciuto come il “nonno ragno” di Erba, partecipò a due spedizioni verso la vetta del monte più alto del mondo nel 1989 e nel 1991.
Roberto, che nella vita lavora in tutt’altro ambito, ci aveva raccontato come fosse nata in lui questa grande passione: “Ho cominciato a praticare alpinismo due anni fa – diceva – dopo essere stato qui in Nepal e aver visto per la prima volta queste incredibili montagne”.
Per Roberto e l’Everest è stato amore a prima vista: dal primo incontro, anche solo vedendolo da lontano, l’alpinista di Nesso ha iniziato a sognare di poterlo conquistare un giorno. Così, dopo l’esperienza in Nepal, ha deciso di iniziare dal basso (si fa per dire) cimentandosi con le vette italiane e non solo.
“In Italia ho cominciato con l’aiuto di una guida alpina a scalare qualche montagna a quota 4.000 metri – ci spiegava – Gran Paradiso, Cima Castore e Capanna Margherita, poi qualche vetta a 3.000 metri e il Monte Legnone in invernale, ma anche il Kilimangiaro e tante altre”.
E da lì, la strada dalla vetta più alta del continente africano a quella in cima al mondo è stata tutta in salita. Due anni di preparazione fisica e mentale sono serviti a Roberto per arrivare pronto a questa impresa. “È un sogno nel cassetto, dopo aver visto questa montagna la mia vita è cambiata – aveva aggiunto – la mia famiglia è con me in tutto, non so cosa farò dopo”.
Un commento
Alcune volte andiamo a cercare lontano, quello che abbiamo qui a due passi. Sia che intendiamo la montagna come occasione di crescita personale, sia per una performance sportiva.