E’ verissimo che nel pontificale del vescovo Oscar Cantoni in occasione dei Vespri per la festività di Sant’Abbondio il nerbo è stato l’appello accorato ai comaschi a non cedere davanti ai pur pesantissimi effetti delle pandemia e, anzi, il titolo stesso del discorso va nella direzione della scossa e della riscossa: “Città di Como! Rialzati e riparti”.
Ma è difficile non cogliere nel messaggio complessivo l’ennesimo richiamo alla vicenda dei senzatetto, che si trascina ormai da anni e che nel portico dell’ex chiesa di San Francesco ha ormai il suo simbolo.
Naturalmente, prima sono tantissime le parole spese dal vescovo sui mesi terribili dell’epidemia, con il ricordo per ” i medici e gli infermieri, i sacerdoti e le religiose, quanti hanno garantito i servizi essenziali, indispensabili alla convivenza civile, gli insegnanti, le forze dell’ordine e i militari che hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze delle persone e delle comunità”.
Toccante il passaggio sui molti lutti lasciati a Como dal Coronavirus: “La nostra vicinanza compassionevole è rivolta a quanti sono stati colpiti dal coronavirus, morti in nera solitudine. Penso ai molti anziani, alle tante vittime nelle case di riposo, ma anche a persone ancora in età giovanile”.
E poi, i tre inviti lanciati dal vescovo ai comaschi per riuscire ad andare oltre questo periodo tremendo: “Ripartire con fiducia; Preferire la luce; Coltivare il desiderio”.
Ed è nel secondo che è compreso il lungo passaggio sulla situazione dei senza dimora: “Dio è luce e la luce va riposta al centro delle nostre preoccupazioni e delle relazioni, anche di quelle istituzionali. Finché nella nostra Città uomini e donne vivranno nelle tenebre della solitudine, del degrado, dell’ingiustizia, senza una fissa dimora, significa che la luce non ha ancora invaso le nostre scelte, che la buona notizia dell’amore non ci ha ancora del tutto contagiati”.
E ancora: “Solo tre cose resisteranno, afferma San Paolo: fede, speranza e carità, “ma di tutte più grande è la carità” (1Cor 13,13). Su questo non solo saremo giudicati, ma lo siamo già tutt’ora: sono le nostre scelte che testimoniano la verità dei nostri orientamenti fondamentali e determinano o meno la nostra credibilità”.
DI SEGUITO IL DISCORSO INTEGRALE
Nella festa di s. Abbondio tutta la Città di Como si concede una sosta e si inchina. Il santo Patrono è una felice occasione di convergenza, sia per le comunità cristiane, sia per tutte le altre realtà che costituiscono la vita sociale, civile e professionale della Città.
Viviamo un momento di festa e di gioia, quest’anno, purtroppo, in forma ridotta, a causa della pandemia ancora in atto, ma riconosciamo anche che si tratta di una felice opportunità, che induce tutti noi, qui presenti, a una doverosa riflessione, a partire dalla complessità dei problemi personali, familiari, sociali ed ecclesiali che ne sono derivati.
Il tutto, in vista di una “ripartenza”, per uno stile di vita nuovo, dopo i giorni più acuti della pandemia, che ci ha coinvolti tutti da vicino, da un capo all’altro del mondo.
Il mio saluto e il mio benvenuto è rivolto a tutti voi, impegnati a tanti livelli nel promuovere il bene comune, dalle Autorità civili e militari, ai vari rappresentanti delle Istituzioni particolarmente impegnate nei giorni drammatici dell’emergenza del corona virus: i medici, gli infermieri, gli operatori socio sanitari, la protezione civile, la Croce Rossa, i responsabili delle Rsa, i diversi volontari.
1. Un evento non previsto
Abbiamo sperimentato nel tempo del lockdown tanta sofferenza, unita a inquietudine e paura, a un senso di incertezza e di provvisorietà. Una situazione imprevedibile, che ha scompaginato le nostre abitudini e insieme anche le nostre certezze.
Un nemico insidioso si è insinuato, a nostra insaputa, nel corpo, a tal punto da poterlo trasmettere, anche se non si sa di averlo. Abbiamo toccato con mano, come non mai, la nostra fragilità di uomini e di donne. Sono state smascherate le nostre false sicurezze, tutti esposti a un virus che non conoscevamo e a cui abbiamo dovuto far fronte.
Un motivo in più per sentirci legati e responsabili, anche in futuro, gli uni gli altri, tutti coinvolti in una medesima avventura, da affrontare insieme, con l’aiuto di Dio.
Una prima grande lezione che qui emerge è quella di credere che oggi, più che mai, è urgente attivare la “mistica della fraternità”: siamo tutti sulla stessa barca e possiamo salvarci solo ed esclusivamente insieme. Rinunciamo, quindi, al vecchio male dell’individualismo, al pensare egoisticamente solo a noi stessi, solo “ai nostri”, e apriamoci a uno stile di solidarietà e di comunione come dimensione permanente di vita.
2. La fragilità alla base della nostra umanità
Una certa “deformazione da benessere”, che in questi anni ci ha fortemente condizionato, ci ha fatto credere, a lungo andare, di essere intoccabili, veri padroni di noi stessi e del mondo attorno a noi.
Il virus, invece, ci ha messo in discussione, e mentre vacillava la salute del corpo, ha bloccato le nostre agende, con i programmi e le varie priorità.
È un tempo, tuttavia, che ci ha offerto anche l’occasione per riconoscere e accettare la nostra creaturalità. Siamo deboli e fragili, ma teneramente amati da Dio, che vogliamo considerare non come assente dalla storia umana, né tanto meno come concorrente dell’uomo, ma vivo e operante verso tutti i suoi figli, a partire dalla nostra finitezza.
Quanto più torneremo a Dio, considerandolo padre buono e provvidente, tanto più sapremo costruire relazioni umane più fraterne, fondate sul primato della persona, quindi sul rispetto di ciascuno, indipendentemente dall’età, dalle condizioni fisiche, psichiche e socio economiche.
Sapremo finalmente riconoscere la dignità e l’onore che compete a ciascun essere umano in quanto tutti siamo figli di Dio. Solo in questo modo potremo guarire il tessuto personale e sociale nel quale viviamo e liberarci da quelle continue tensioni e dissidi, che certo non facilitano la nostra umana convivenza.
3. Lockdown, una occasione per riflettere
La solitudine radicale, provocata nei giorni del lockdown, ha scombussolato tante persone, incapaci di gestire relazioni pacifiche con i propri familiari, ma anche difficilmente in grado di affrontare il silenzio, la solitudine, la distanza fisica dai colleghi, dai compagni di scuola.
L’isolamento e le restrizioni dei rapporti sociali hanno incrementato il disagio giovanile e favorito il rifugio nel mondo della realtà virtuale. Nello stesso tempo, però, ha offerto ad alcuni una opportunità straordinaria per riflettere, ha permesso di rileggere se stessi, la propria storia, affrontando anche certi “temi scomodi”, che la mentalità moderna cerca sempre di allontanare o comunque di rimuovere.
Alcuni amici mi hanno riferito come in quei giorni siano stati messi in grado di riflettere sul senso profondo della loro vita, sul tema della sofferenza, della fragilità e della morte, e insieme stimolati a rivedere la qualità delle proprie relazioni interpersonali, favorendo così una apertura alla trascendenza.
Sono temi, questi, che trovano in Gesù Cristo la loro esatta interpretazione per avviarsi su sentieri di pace con noi stessi e di riconciliazione con gli altri e con il creato.
Il Vangelo narra come Gesù risorto sia entrato, senza preavviso, nella casa dove i discepoli, a porte chiuse, erano rintanati in auto-isolamento e li abbia liberati dalla paura e dalla solitudine. Quest’opera di guarigione continua ancora oggi da parte di Gesù nei confronti di quanti sono oppressi e impauriti.
4. Compassione = “patire con”
La sofferenza fisica e spirituale, sperimentata in questi mesi, ci ha fatto comprendere più da vicino la necessità di imparare ad esercitare una vera e propria compassione verso gli altri, prendendo su di noi i dolori altrui, le infermità fisiche, spirituali e sociali.
Gli altri non sono esseri anonimi, né concorrenti, o peggio, nemici; sono fratelli e sorelle da amare, chiunque siano, senza differenze di età, condizioni sociali, provenienze e religione.
Quanto cammino di riconciliazione ci resta da percorrere a partire dal modo con cui affrontiamo gli altri: a volte con indifferenza, distacco, pregiudizi e sospetto! Impareremo la lezione che ne deriva da questi giorni?
La nostra vicinanza compassionevole è rivolta a quanti sono stati colpiti dal coronavirus, morti in nera solitudine.
Penso ai molti anziani, alle tante vittime nelle case di riposo, ma anche a persone ancora in età giovanile. Siamo solidali con le loro famiglie, soprattutto quelle che non hanno potuto assistere adeguatamente i loro familiari nel momento della morte, offrire loro parole di consolazione e di speranza, stringere la mano e guardare negli occhi, e sono state costrette a seppellire i loro cari senza una degna sepoltura.
Il lutto non è stato celebrato e condiviso anche nella fede comune. La pace e la gioia di Cristo risorto illumina, tuttavia, la vita nuova di coloro che ci sono stati tolti, ma di cui solo Dio padre conosce il valore nell’impegno per la famiglia, nel loro generoso servizio alla nostra società civile e anche per il loro prezioso coinvolgimento nella Comunità cristiana.
5. Il servizio delle Comunità cristiane
Nonostante per molto tempo le celebrazioni eucaristiche nelle nostre chiese si siano svolte “a porte chiuse”, le Comunità parrocchiali non si sono sottratte al loro impegno pastorale: ad esse la mia gratitudine!
Sacerdoti, persone consacrate e laici non hanno abbandonato a loro stessi le persone, ma hanno fatto giungere nelle case, quindi alle famiglie, ai ragazzi, agli anziani, alle persone sole, messaggi di vicinanza, appelli alla fede e alla speranza. I catechisti si sono impegnati per “tessere legami” con i loro ragazzi. Lo zelo pastorale di tanti sacerdoti, con le loro proposte creative, hanno aiutato a crescere nella fede e a non rimanere soli di fronte al dolore e alla paura.
Molte famiglie si sono riscoperte “chiesa domestica”, in cui papà e mamma hanno potuto pregare in modo disteso con i loro figli, assistere alle proposte televisive o via streaming della s.Messa o di altri momenti catechistici. Tante famiglie, il parentado, il vicinato hanno avviato un cammino per crescere nella fede e nell’aiuto reciproco, così che la Parrocchia ha manifestato la sua vera vocazione: quella di essere “comunione di comunità” e “comunità di famiglie”. Perché non utilizzare per il prossimo futuro queste stesse dinamiche?
Nel lockdown anche i non credenti, o le persone non più praticanti, hanno potuto avere l’opportunità di avvicinare il messaggio cristiano, riproposto secondo le esigenze di questo periodo: una splendida occasione missionaria, offerta a coloro che hanno voluto usufruirne per soddisfare la loro sete di significato.
Il servizio della Caritas, con molta fatica e generoso impegno di volontari, ha cercato di assistere i numerosi poveri, il cui numero è sempre più in crescita. Sarebbe una splendida testimonianza di vita evangelica se le famiglie senza difficoltà economiche, nei prossimi mesi, si facessero carico di famiglie disagiate e in povertà.
6. Una luce splende nella notte del mondo
Un proverbio afferma che “in una notte buia, le stelle sprigionano più intensamente la luce”. Così in questo periodo così drammatico sono emerse testimonianze luminose di persone che si sono prese cura degli altri, fino allo stremo delle forze e anche con il sacrificio della loro vita.
Ricordo innanzitutto i medici e gli infermieri, i sacerdoti e le religiose, quanti hanno garantito i servizi essenziali, indispensabili alla convivenza civile, gli insegnanti, le forze dell’ordine e i militari che hanno contribuito ad alleviare le difficoltà e le sofferenze delle persone e delle comunità.
La festa del nostro santo Patrono è una occasione opportuna per ringraziare quanti, con ammirevole generosità e larghezza di cuore, hanno messo a disposizione degli altri le loro competenze professionali, a tutela della salute fisica, psichica e spirituale delle persone affette dal corona virus, in una visione di insieme, per cui è tutta la persona umana di cui ci si deve prendere cura e non solo una parte di essa.
Riconosciamo il loro impegno, testimoniato anche da quei medici e infermieri impegnati in reparti “tranquilli”, che tuttavia hanno chiesto di essere trasferiti in prima linea, o di quanti, già in pensione, hanno accettato di rientrare negli ospedali per offrire soccorso ai malati.
E’ ammirevole il fatto che medici , infermieri e operatori sanitari si siano sostituiti ai familiari, recando alle persone malate anche un sollievo spirituale e accompagnandoli con tenerezza. Ricordiamo con affetto e riconoscenza quanti, soprattutto nella nostra terra di Lombardia, epicentro del disastro, medici, infermieri e sacerdoti, hanno perso la vita, avendola donata. Cristo continua oggi a lavare i piedi ai suoi apostoli attraverso quanti offrono loro stessi in un servizio umile e generoso.
A conclusione di questa lettura dei giorni della pandemia con uno sguardo di fede, vorrei sottolineare tre atteggiamenti esistenziali, che riassumono i sentimenti che ci devono ispirare per scelte di vita nuova e così ripartire con fiducia e grande speranza.
Ripartire con fiducia. Si tratta, innanzitutto, di fare i conti con la paura che accompagna le nostre esistenze: paura di perdere la vita e le persone amate; paura dell’altro, visto con sospetto o come un potenziale nemico; paura di non aver il necessario per vivere, paura che Dio si sia dimenticato di noi.
Davanti a ogni paura che ci scuote, il Signore risponde: “Non abbiate paura, abbiate fede in me”: la fiducia è la prima e vera àncora di salvezza.
Questo è emerso: siamo uomini e donne bisognosi di fiducia, mendicanti di protezione e di cura. E la fiducia è la strada che conduce a Dio ed il primo e grande invito: abbiate fede, trovate le opportunità per approfondirla, nutritela attraverso un confronto con vari testimoni. La fede salva, rinnova e fa risorgere. Approfondire la fede significa tenere vivo il dialogo fra fede e vita, ma anche tra fede e scienza, tra fede e cultura.
Preferire la luce. Ancora una volta ci siamo accorti di non essere fatti per le tenebre, di essere “figli della luce”. Soprattutto nei giorni più bui abbiamo sentito il bisogno di aprire le finestre, di fare entrare il sole della fraternità mediante segni di vicinanza e di condivisione.
Dio è luce e la luce va riposta al centro delle nostre preoccupazioni e delle relazioni, anche di quelle istituzionali.
Finché nella nostra Città uomini e donne vivranno nelle tenebre della solitudine, del degrado, dell’ingiustizia, senza una fissa dimora, significa che la luce non ha ancora invaso le nostre scelte, che la buona notizia dell’amore non ci ha ancora del tutto contagiati.
Solo tre cose resisteranno, afferma San Paolo: fede, speranza e carità, “ma di tutte più grande è la carità” (1Cor 13,13). Su questo non solo saremo giudicati, ma lo siamo già tutt’ora: sono le nostre scelte che testimoniano la verità dei nostri orientamenti fondamentali e determinano o meno la nostra credibilità.
Coltivare il desiderio. È emerso un grande desiderio di vita nuova, rinnovata, di valori riscoperti e condivisi. È giunto il tempo di rimettere al centro quel tesoro che riponiamo nel nostro cuore. Un tesoro sul quale vi è scritto il senso di ogni esistenza: l’amore di Dio e dei fratelli. “Il nostro amore verso il prossimo è la misura del nostro amore a Dio”, ha scritto Edith Stein (santa Teresa Benedetta della Croce, compatrona dell’Europa).
“Per i cristiani, e non solo per loro, nessuno è straniero. L’amore di Cristo non conosce frontiere”. Innumerevoli volte, in questo tempo, è risuonato tra noi lo slogan: “nulla sarà più come prima!” Evitiamo che restino parole vuote, perse nel vento, proviamo invece a invertire la rotta, a purificare sguardi, interessi, relazioni. Apriamo strade nuove nel deserto di questa pandemia.
Penso al faticoso impegno del nostro patrono, s.Abbondio (450-489, quarto vescovo di Como) per annunciare che Gesù era veramente uomo, per fare in modo che tutti potessero sentirlo vicino, capace di comprendere il dolore e le speranze che abitano i cuori umani. L’incarnazione di Dio in Gesù di Nazareth è il miracolo della vicinanza, è il pozzo della misericordia, al quale attingere la possibilità di una vita nuova, diversa, nonostante gli errori di un passato, che a volte sembra imprigionarci.
La fiducia, la luce e il desiderio di una vita piena e abbondante ci accompagnino in questo tempo che abbiamo davanti a noi, orientino le nostre scelte ecclesiali, civili e politiche, affinché si possano sperimentare in questa nostra amata Città di Como e in tutta la nostra Diocesi le parole contenute nel libro della Apocalisse: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà”(Ap 22,3).
+ Oscar Cantoni, vescovo
3 Commenti
In realtà il problema dei senzatetto è la punta dell’iceberg di una situazione di disagio ben più vasta che ha origine da una serie di scelte economiche e politiche vecchie di 30anni. A Como i senzatetto, molti autoctoni e pochi forestieri (per chi non li segue), sono lo specchietto di trent’anni di crisi economiche pagate sulla pelle delle classi lavoratrici, dei meno ricchi e di chi ha convissuto la tragedia di dipendenze e tragedie personali. La deindustrializzazione che ha colpito il nostro territorio, la crisi della famiglia, la crisi del tessuto sociale che era molto forte da noi ma che adesso lo è molto meno, hanno fatto esplodere un problema che la nostra città non aveva mai visto prima: la miseria.
Di conseguenza, il Vescovo aggiunge la sua voce a tutti quelli che chiedono che un problema sociale che è sotto gli occhi di tutti sia affrontato da tutti in particolare dalla politica e da chi ha il governo delle Amministrazioni locali.
Ma qui il Vescovo non fa i conti con gli evidenti limiti che l’attuale classe politica che governa Como da tre anni, mostra in ogni occasione. Dopo una campagna elettorale tesa a criminalizzare i poveri e le associazioni che li aiutano, stiamo ancora aspettando una soluzione che non siano le solite farneticazioni di chi persiste nel criminalizzare la povertà.
Ben venga l’opera di sensibilizzazione del Vescovo ma è sufficiente? O, come è più probabile, dobbiamo aspettare che chi non è in grado di trovare soluzioni tolga il disturbo? Mah….
@Albe: quindi? Ripristiniamo i campi di concentramento?
Capisco la sensibilità delle persone di buon cuore che vogliono risolvere i problemi sociali con i soldi delle nostre tasse, è facile essere benevoli con i soldi degli altri … ma il 98% dei senzatetto non fa parte di un problema sociale Sono solo un gruppo di persone con certe caratteristiche speciali (pigre … ubriache … drogate … sporche e senza scrupoli) a cui non frega niente della società e delle cazzate. Ed è proprio ciò di cui la maggior parte delle ONG ha bisogno per funzionare, sensibilizzare le persone credulone e rendere le loro funzioni un business perfetto … uno dei migliori al pari dei giochi gratta e vinci e delle chiese … mentre non è necessario vivere tra il miserabile e il disgusto. Amen