La bluastra penombra del crepuscolo d’autunno si abbassa su Como, spezzata dal lenzuolo di luce bianca calato dai fari accesi sul campetto sintetico dell’oratorio di San Bartolomeo. Gruppi di bambini della scuola calcio della Libertas corrono con foga dietro a dei palloni.
Oswaldo Segovia, 29 anni, incoraggia i pulcini in un italiano tinto dell’accento ispanico che si è portato dietro quando ha lasciato il suo Salvador, due anni e mezzo fa.
C’è poi Collins Peprah, 24 anni, appena arrivato dopo aver staccato dal proprio lavoro da metalmeccanico a Figino Serenza. 15 anni in Italia, dopo essere arrivato con i genitori dal Ghana. Oggi, Collins, un passato nella primavera dell’Inter, allena gli esordienti della squadra.
Nel proprio ufficio, c’è poi “El Presidente” come Oswaldo pronuncia il titolo di Enrico Bello, presidente della Libertas Asd San Bartolomeo.
Insieme sono alcuni dei volti fondamentali del progetto “We have a dream” lanciato dalla squadra nel 2017, con l’aiuto di Fondazione Comasca, per l’inserimento in un programma di formazione e integrazione di richiedenti asilo e giovani stranieri in difficoltà.
“L’idea fondamentale del progetto è che l’accoglienza non può essere solo e soltanto un letto e un pasto, come spesso la si intende” spiega Bello, descrivendo l’iniziativa che negli ultimi due anni ha portato alla formazione di sei ragazzi stranieri (due dei quali sono Oswaldo e Collins) come istruttori, allenatori e mediatori all’interno della società.
“Integrazione è piuttosto un percorso che richiede la conoscenza della lingua, il rispetto delle cultura e l’osservanza delle regole. Cose che abbiamo voluto insegnare ai ragazzi che si sono inseriti nel nostro organico, con un lavoro onesto e riconosciuto”.
Chi ha preso parte al progetto ha incontrato il Presidente sempre a bordo campo, come Oswaldo che nel 2015 ha scambiato le poche parole in Italiano che sapeva con Bello, a margine di una partita ad Albate.
Alle spalle, le sanguinose guerre tra bande di San Salvador da cui è fuggito. Oggi, Oswaldo dice di essere stato fortunato. “Da quando sono arrivato in Italia ho trovato solo gente buona. In Salvador, il calcio mi ha tenuto lontano dalla vita da strada e dalla droga – racconta il ragazzo, oggi padre di una bimba di 9 mesi – qui, invece ha aiutato a inserirmi e a trovare nella Libertas una vera famiglia, quando non avevo nessuno”.
Per Collins il campo decisivo è quello di San Bartolomeo, dove giocava quando i talent scout della primavera dell’inter l’hanno notato ad appena 16 anni, un sogno stroncato poco dopo da una brutta frattura al ginocchio.
“Per me lo sport è prima di tutto un amore, non si tratta di fortuna o sfortuna – dice il ragazzo, oggi padre di un bimbo di 4 mesi – io la fortuna l’ho cercata in campo. Dopo l’infortunio, poi, il Presidente mi ha convinto a giocare di nuovo e ad allenare. Mi ha preso con lui come un buon padre”.
Ma oltre a Oswaldo e Collins, ci sono altre storie raddrizzate dai calci tirati al pallone sul campetto di San Bartolomeo. Sono quelle degli altri “sognatori” di “We Have a Dream”: Malang, Barry, Ceesay e Bastu, richiedenti asilo africani capitati per caso nei paraggi del campetto di via Rezia e che lontano da via Rezia hanno trovato altri lavori, grazie proprio al percorso fatto in Libertas.
“Purtroppo, con le recenti riforme in fatto di immigrazione sono state eliminate le risorse per i corsi di italiano e dei percorsi di apprendistato. Si pensa solo a nutrire e dare un tetto fino a quando non si ottiene un permesso di soggiorno – spiega con una certa amarezza Bello – poi, appena uno riceve i documenti, deve lasciare il sistema d’accoglienza. Non mi stupisco che poi si finisca sotto al portico di San Francesco”.
“We have a dream” ha impedito proprio che i richiedenti asilo scivolassero tra le crepe del sistema, perdendosi in una vita da strada.“I posti di lavoro ottenuti dai nostri ragazzi chiudono il cerchio iniziato sul nostro campo. Qui lo sport è sempre amore e passione ma soprattuto un’occasione di rinascita, per rimettersi in gioco ” conclude il presidente.