Il 18 di via Primo Tatti, sede del servizio Porta Aperta gestito dalla Caritas, è il primo luogo in cui un senza fissa dimora comincia il proprio percorso. Qui cerco aiuto e direzione dopo la mia prima notte a San Francesco.
Non ho la più pallida idea di cosa e quando mangerò e soprattutto ho bisogno di stare lontano dalla strada, al chiuso, per qualche ora. Pietro, Stefano ed io aspettiamo l’orario di apertura. Su ognuno, la notte all’aperto ha lasciato segni diversi. Per me, nuovo, è stata una semplice notte di mancato riposo.
Ma Stefano tossisce senza sosta e aspetta da ore di riempire lo stomaco per prendere un’aspirina. Pietro ha un forte eritema a macchie sul volto: “E’ l’effetto delle coperte, dell’essere esposti all’aria e forse anche al disinfettante che usano al portico di San Francesco”.
La serratura scatta e gli uffici aprono. Stefano deve ricaricare il proprio cellulare. Nelle lunghe giornate scandite solo dalle code alle mense, tè caldi offerti dai volontari per poi rannicchiarsi sotto ad una coperta a fine giornata, lo svago è raro. Più tardi ha un appuntamento per avviare le pratiche per il reddito di cittadinanza e Pietro per rifare il proprio curriculum. Io, invece, devo registrarmi ufficialmente come senzatetto per avere accesso a servizi essenziali.
Nella reception arancione, parlo con il primo operatore disponibile. Lascio la mia patente e mi siedo. Dopo cinque minuti mi trovo davanti a due volontari a spiegare la mia storia.
Racconto di San Francesco e chiedo se sia disponibile un dormitorio in cui alloggiare. Chiedono del mio passato, tra lavoro e dipendenze ma il verdetto è tutt’altro che confortante: “Al momento un dormitorio c’è ma le liste d’attesa sono lunghe e la priorità viene data a chi proviene dalla provincia di Como”.
Conviene piuttosto tornare nella mia provincia di residenza. Mi avvertono che l’inverno a Como sta arrivando e che non sarà facile rimanere per strada. Per adesso possono mettermi in lista per la tessera-mensa.
Emergo dal colloquio con una mappa di Como e un buono pasto della durata di una settimana. Sono passate da poco le 10 ma sembra molto più tardi. Qualche ora senza una routine fissa, senza riposo, e il tempo si deforma e occupare il resto del giorno è una sfida che schiaccia. Ma Stefano mi porta in Biblioteca. “Puoi attaccarti al Wifi, ci sono i distributori automatici, le prese di corrente – spiega il ragazzo, mentre mi scorta nella sala comune al piano terra – e soprattutto, c’è caldo”.
La Biblioteca è passaggio obbligato per molte delle persone con cui ho mangiato spalla a spalla alla mensa di via Grossi o con cui ho dormito a San Francesco.
Un gruppo di ragazzi eritrei fissa gli schermi dei cellulari e Mimmo, l’egiziano, ricarica il suo telefono, mentre le macchinette di merendine ronzano e qualcuno si lava in bagno. Tre uomini di mezza età parlano in arabo e fanno a gara per offrirsi il caffè a vicenda. Un piccolo sprazzo di normale convivialità, in attesa del successivo rituale del senza fissa dimora che non tarda ad arrivare: la coda per il pranzo alla mensa dei poveri della Casa Vincenziana in via Tatti. Qui, il cibo viene distribuito dalle 11 alle 12 e pochi minuti prima c’è già ressa, con alcuni che battono i pugni sul portone.
“Oggi ci sono i sacchetti – mi avverte Pietro, riferendosi ai pranzi al sacco preparati dalle suore – mangeremo su una panchina”. La piccola folla di stranieri, anziani e senzatetto, si contrae e si distende nel tentativo di recuperare il pasto. Qualcuno, intrappolato, bestemmia a voce alta. Perdo le mie due guide.
Venti minuti dopo ritrovo Stefano davanti alla Biblioteca. Gli spiego che su consiglio degli operatori di Porta Aperta ho deciso di lasciare Como. Stefano, invece rimane dov’è, insieme agli altri, con l’unico piano a disposizione: “Voglio solo stare al caldo qui. Stanotte danno pioggia”.