Continua il dibattito sulla scuola che sulle nostre colonne si conferma più vivace che mai, soprattutto grazie ai contributi di lettori, esperti e addetti ai lavori. Oggi ospitiamo l’intervento di un papà, Marco Corengia, che ci affida una riflessione (dolceamara) sulla fine di quest’anno scolastico per molte ragioni irripetibile.
Quello che i genitori non dicono – non lo dicono sui gruppi whatsapp, non lo dicono nell’assemblea di classe – alla fine lo dice un papà: “Ma sì, in fondo, cosa saranno mai 3 mesi su un’esperienza formativa di 13 anni”. Ecumenico, conciliante, che parla dritto al cuore. E che rende l’idea, più di ogni indagine statistica, di quanto questi tre mesi di didattica a distanza, in alcuni casi siano stati un’occasione persa.
In molti si sono chiesti se alla fine ne saremmo usciti migliori. E allora eccoci, né migliori né peggiori. Siamo gli stessi di prima, abbiamo semplicemente tirato fuori quello che avevamo dentro.
Basta farsi un giro tra amici e conoscenti per scoprire quanto questi tre mesi di scuola a distanza siano stati coniugati in maniera diversa, di plesso in plesso ma anche di classe in classe.
Ma come mai tutte queste differenze? La risposta istituzionale ci dice che “ogni insegnante, pur all’interno di coordinate precise, che prevedevano un equilibrio tra didattica sincrona e asincrona, era libero di organizzare autonomamente il proprio lavoro”.
E così è stato. Gli insegnanti hanno fatto e hanno dato. Fedeli alla retorica del “siamo tutti in guerra”, molti di loro hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo e altri – pochi, pochissimi – si sono occupati di vettovagliamento e smistamento corrispondenze.
E noi genitori? Quell’esercito che sui gruppi whatsapp assale all’arma bianca con scariche di “grazie” quando viene ritrovato il grembiulino andato perso, che si arrocca su un’irrinunciabile linea del Piave perché “i compiti nel weekend sono troppi”, o che sgancia l’arma-digitale-finale con lo streaming della messa in parrocchia perché Dio potesse essere tra noi anche nelle tenebre del lockdown, il cuore oltre l’ostacolo l’ha buttato pure lui oppure, calendario alla mano, ha deciso che – togli Pasqua e il 25 aprile, il primo maggio e il 2 giugno, togli i sabati e le domeniche- alla fine ti accorgi che già ai primi di marzo l’anno poteva ritenersi praticamente finito?
Bisogna aspettare chi sta indietro. Vero verissimo. L’attenzione per gli ultimi ha un valore educativo che va oltre le divisioni in colonna. E’ la base su cui si costruisce una società civile.
Ma aspettare chi sta indietro vuol dire rallentare tutti o caricarsi gli ultimi sulle spalle per tornare a correre tutti insieme? E’ battersi perché la scuola compensi la mancanza di tablet e computer – l’Istituto Comprensivo di Rebbio è riuscito a recuperare quasi un centinaio di apparecchi – o accontentarsi di fare quello che si può, con quello che si ha?
Ecco, se il lockdown poteva diventare un’occasione per combattere il digital divide, credo si possa affermare con serenità che questa battaglia, su alcune linee del fronte non sia nemmeno stata combattuta.
Si è preferito aspettare che l’anno finisse, sperare che il virus passasse. Animati dall’errata convinzione che formarsi sul piano della didattica a distanza di riflesso implicasse abbassare la guardia di fronte all’obiettivo – questo sì, unico e irrinunciabile – del ritorno alla didattica in presenza. Come se questi due modi di fare scuola fossero antitetici e non complementari.
Come se il rischio “seconda ondata”, che per molti potrebbe prospettarsi con l’arrivo dell’autunno, non ci obbligasse a farci trovare pronti. Come se una situazione di emergenza non pretendesse da tutti – genitori, figli, nonni, insegnati, presidi e ministri – uno sforzo mai visto prima.
Un commento
riflessioni congrue , pertinenti e stimolanti