L’impressione epidermica quando si entra nel quartiere “Villaggio”, il gruppo di case tra il 47 e il 57 di via Zezio, a Como è quella di trovarsi in una piccola capsula temporale, sospesa in un periodo indefinito, tra gli anni ‘50 e ‘70 del secolo scorso.
I gesti ripetuti tra i pochi civici che compongono l’area sono quelli di un’Italia sorridente e sbiadita delle foto delle vacanze di nonni e genitori trovate in soffitta.
Cappuccio, Gazzetta, chiacchiere con il vicino, anche di mercoledì mattina, all’Antica Caffetteria del Borgo. Giornale fresco portato a casa in motoretta da Pietro, l’edicolante 80enne di via Dante. Rasatura a lama libera da Albino, mentre altri clienti leggono Tex in bianco e nero.
Aperitivo elegiaco con il Campari, a La Vignetta, ricordando i tempi in cui la zona aveva tre alimentari e altrettante bocciofile, in cui si è addirittura disputata una finale del Campionato italiano, negli anni ‘70. Chiedi e tutti risponderanno che il Villaggio non è un quartiere ma un paese.
“Tutto è cominciato con la costruzione delle case dell’Edificatrice – spiega Luciano Pestuggia, titolare del bar La Vignetta, riferendosi alle abitazioni costruite tra il 1911 e il 1929 dall’omonima ditta edilizia per i propri operai – per decenni ci sono state centinaia di persone in quegli alloggi e di conseguenza il quartiere si è evoluto indipendentemente, con i propri negozi, ortolani, bar che rendevano facile vivere qui senza spostarsi”.
Molte delle famiglie hanno preso questo principio alla lettera e da tre generazioni vivono ancora nell’Edificatrice, come i loro nonni e genitori, ci spiega Salvatore Minneci, siciliano trapiantato a Como in tenera età, che gestisce L’Antica Caffetteria del Borgo”, una latteria dagli infissi art-decò e gli interni anni ‘60.
“Qui tante persone sono nate e sono morte – spiega il barista – ma soprattutto hanno imparato a convivere. Come l’Ambrosini e il Messaggi, uno fascistissimo e l’altro rosso, peggio di Lenin. Negli anni ‘70, ubriachi, litigavano discutendo di politica salvo poi reggersi l’uno all’altro sulla via di casa”.
Anche i discorsi sull’integrazione tra culture sono d’altra epoca. Qui non si parla di migranti ma ancora si lancia qualche (affettuosa) battuta al barista siciliano o al barbiere campano, Albino, di Benevento che, figlio di un contadino, aveva capito già a nove anni che al lavoro nei campi preferiva pettine e forbici.
“Mio padre pagava in uova e verdura un parente per insegnarmi il mestiere. Poi sono salito a Como nel 1961 e non me ne sono più andato – racconta l’uomo dal suo negozio, mentre con destrezza rasa le guance di un cliente – qui si stava tutti insieme, ricchi, poveri, meridionali, comaschi. Oggi vedo gente più di fretta, più incazzata”.
Nonostante la vitalità antica del piccolo angolo di Como, il Villaggio vede una grande maggioranza di pensionati. E con una popolazione che invecchia e scompare, decadono anche alcuni templi laici, come la bocciofila dietro a La Vignetta, abbandonata per mancanza di iscritti. Eppure si racconta di molte coppie giovani che scelgono la tranquillità delle vie poco trafficate del Villaggio.
ara Fei, titolare da vent’anni della lavanderia di via Zezio, per decenni della famiglia Luraschi, racconta che molti dei suoi clienti sono i bambini che ha visto crescere nel quartiere e che hanno deciso di rimanere: “E con loro si torna a creare quel rapporto di fiducia tipico del Villaggio. Fiducia che si costruisce giorno dopo giorno, quando le persone ti portano la loro biancheria da lavare” scherza la donna.
Un commento
Tratto dal libro “Cuore”…