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Cultura e Spettacolo

Matria, antitesi di Patria: l’arte di Bonacina e la performance collettiva (con le coperte) alla Casa del Fascio

Nelle intenzione dell’artista e ideatore, Edoardo Bonacina, “l’opera MATRIA è un azione volta a sensibilizzare il pubblico verso una dimensione collettiva del fare per mettere in gioco nuovi valori condivisi e più inclusivi al fine di porre l’attenzione sul rapporto tra il contesto sociale ed il contributo femminile”. E il giorno giusto per vedere dal vivo l’effetto che performance e significato produrranno assieme sarà il prossimo 20 marzo, tra le 10 e le 17, esattamente nel piazzale davanti alla Casa del Fascio di Como (che, purtroppo, nell’invito dove compaiono patrocinio e sostegno di Comune di Como e Maarc, viene ancora chiamata “Palazzo Terragni”).

Ma al di là di definizioni più o meno precise o popolari, sarà interessante vedere l’effetto di Matria che come lo stesso Bonacina riporta – da definizione Treccani – è il “luogo fisico e metaforico d’accoglienza, al di là delle appartenenze nazionali, etniche, religiose, sociali, di genere ecc., contrapposto alla patria come realtà storica definita dai discrimini dell’identità nazionale e dell’appartenenza nativa a un dato territorio”.

Qui le immagini dalla fonte originale (da cui abbiamo tratto l’immagine di copertina)

In concreto, tra un mese esatto, la parola MATRIA sarà “formata da coperte portate dai partecipanti alla performance e sarà costruita direttamente da loro (seguendo delle linee guida disegnate) sulla piazza antistante il palazzo Terragni (sic). Nel corso della giornata la parola vedrà un continuo ciclo di costruzione-mutamento-distruzione, dovuto all’aggiunta, rimozione e sostituzione delle coperte dei partecipanti che arriveranno e se ne andranno”.

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2 Commenti

  1. Buonasera,
    Ha ragione Emanuele (Caso) che saluto, è Casa del Fascio. Su cosa si intenda fare devo assistere, con il massimo rispetto per Artisti contemporanei, c’ è un Patrimonio Razionalista da valorizzare come più volte ha sottolineato il Professor Attilio Terragni, e vediamo drammaticamente devastato Asilo Sant’ Elia, dimenticate e non valorizzate tutte le Opere e L’ Archivio Mantero, non so se il Signor Sindaco e Gentilissima Assessore alla Cultura sappiano. Mi sembra che a 4 mesi dall’ elezioni si cerchi di porre rimedio a certe situazioni, e non addosso la Responsabilità al Signor Sindaco, perché credo non sia corretto e giusto. Certo per la Cultura 4 Assessori in 5 anni non ha aiutato. <> di Davide Fent

    Alcune delle figure capitali del Novecento sono state compromesse con i fascismi: è così in Germania (Martin Heidegger, Carl Schmitt), in Francia (Louis-Ferdinand Céline), in Norvegia (Knut Hamsun). In Italia si farebbe prima a rovesciare il ragionamento, quali sono gli intellettuali non compromessi con il fascismo? Fra le due guerre sono stati espressi decine di grandi architetti, uno su tutti Giuseppe Terragni la cui parabola intellettuale è coincisa interamente con quella del regime, visto che era diciottenne alla marcia su Roma e che morirà pochi giorni prima del 25 luglio del ’43. In seguito sono stati tre ebrei a rivalutarne l’opera, dopo un più che comprensibile periodo di rimozione storica nel dopoguerra: nel 1957 Ernesto Nathan Rogers riteneva che la sua azione modernista, offrendo un’alternativa allo stile retorico del regime, avesse salvato l’architettura italiana “in un’oasi di verità dalla quale potrà proseguire il suo cammino senza rinnegarsi”, tanto da intitolare la rivista che dirigeva Casabella-Continuità, appunto; quindi Bruno Zevi da un lato e Peter Eisenman negli Usa dall’altro, fornirono nuove interpretazioni alternative. Ora il pronipote il Professor Attilio Terragni, Architetto e Ingegnere, oltre che docente universitario, saggista, pittore, e intellettuale di profondo respiro internazionale, Presidente della Fondazione Giuseppe Terragni, dopo la pubblicazione di un libro che tutti coloro hanno a cuore la Polis, il Territorio lariano, e il patrimonio culturale dovrebbero assolutamente leggere <> Valerio Paolo Mosco e Attilio Terragni (Forma Edizioni, pagine 168, euro 20,00) ha appena inaugurata a Roma presso la Facoltà di Architettura della Sapienza e curata proprio dall’architetto comasco con il coautore del libro Valerio Paolo Mosco.
    Mostra che, dopo Roma, Venezia, Milano approderà finalmente a Como per la data conclusiva sancendo una sorta di “cessate il fuoco” che rispedisce al mittente qualsiasi ipotesi di polemica contro la città ingrata nei confronti di uno dei massimi esponenti del Razionalismo.
    Giuseppe Terragni, il più dotato dei razionalisti italiani, è stato un artista inimitabile capace di trasfigurare il linguaggio messo a punto da Le Corbusier e Mies van der Rohe in un’astrazione che si affaccia sulle soglie della trascendenza. Richiamato in servizio militare nel 1939, per un lungo periodo è immerso contemporaneamente nella vita di caserma, nei progetti lasciati a Como e in quelle polemiche che sin dal principio hanno accompagnato l’architettura moderna in Italia.
    Nella primavera del 1941 parte prima per la Jugoslavia e poi per la Campagna di Russia. Le lettere e le fotografie che scatta in questo periodo testimoniano che la guerra non ha intaccato la sua ricerca: egli cerca nella vastità della steppa delle nuove possibilità espressive, un nuovo senso spirituale per il suo astrattismo. Viene rimpatriato dopo la disastrosa seconda battaglia del Don in condizioni mentali precarie. Torna minato dai sensi di colpa ma anche, come afferma Alberto Sartoris, “spiritualizzato”. E proprio pochi giorni prima di una morte su cui ancora oggi aleggia un certo mistero, disegna come un epitaffio rivolto al futuro il suo ultimo progetto, quello per una Cattedrale. Un progetto straordinario nel suo afflato mistico che prelude ad una stagione dell’architettura che non si avverrà per la scomparsa di uno dei suoi più dotati interpreti.
    La vicenda raccontata in queste pagine ha un’analogia con la tragedia greca, con il conflitto tra il singolo ed il fato, un conflitto in cui inevitabilmente il singolo soccombe. Ma all’eroe schiacciato da un destino mosso da forze cieche è concessa una consolatoria via di uscita: la trasfigurazione di quello che Nietzsche chiamava il “grande dolore” in forma, in opera d’arte.
    Nelle parole degli architetti spesso si riescono a rintracciare verità assai più rilevanti ed eloquenti rispetto a quelle che si possono individuare nelle loro architetture; e dunque da esse avranno inizio le mie riflessioni, ponendo a confronto i pensieri di due importanti personalità, Le Corbusier e Giuseppe Terragni. Le Corbusier, in “verso una architettura”, scrive: “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La costruzione è per tener su: l’architettura L’architetto franco-svizzero distingue nettamente tra ciò che è, semplicemente, il costruito e l’ “architettura”, la quale deve avere in sé l’anelito di “emozionare”, di “commuovere” ; tale sentimento costituisce l’elemento che va posto in evidenza e che esprime esattamente il concetto che Le Corbusier ha dell’architettura. egli lega l’aspetto emotivo al fatto di percepire e vivere degli spazi, come se cercasse di riunire due mondi: quello apollineo – razionale, funzionale, tecnico – e quello dionisiaco dell’irrazionalità, dell’arte, del sentimento, della poesia. Questi pensieri espressi da Le Corbusier sono ripresi e fatti propri da Giuseppe Terragni nel suo sviluppo del concetto di architettura: “L’architettura non è costruzione e neppure soddisfazione di bisogni di ordine materiale; è qualcosa di più; è la forza che disciplina queste doti costruttive ed utilitarie ad un fine di valore estetico ben più alto”. Terragni sembra così allinearsi a Le Corbusier; comprende infatti che l’architettura non può essere soltanto il “costruire” per una semplice esigenza materiale (tecnica fine a se stessa), ma che essa si amplia ad altre sfere dell’uomo – in realtà da sempre la forma architettonica riflette il senso che la filosofia attribuisce al mondo; dunque l’architettura, affidandosi alla filosofia e non alla tecnica moderna, aspira alla conoscenza delle forme autentiche del pensiero – . dunque egli sente la necessità di introdurre, nella prosecuzione del suo pensiero, un altro termine rilevante: il concetto di “estetica”.
    e continua affermando: «Quando si sarà raggiunta quella “armonia” di proporzioni che induca l’animo dell’osservatore a sostare in una contemplazione, o in una commozione, solo allora allo schema costruttivo si sarà sovrapposta un’opera d’architettura». Terragni quindi articola, chiarisce e definisce il suo pensiero introducendo due concetti puntuali e precisi: quello di “armonia” e quello di “proporzione”, due elementi fondamentali che indicano dove debba essere cercata l’estetica, fine ultimo dell’architettura. Questi termini si ritrovano diffusamente e ossessivamente già negli scritti di Le Corbusier e in Terragni ritrovano tutta la loro potenza evocativa.
    dunque l’architettura è per Terragni la ricerca di una tensione morale per giungere, faticosamente, alla meta, coniugando estetica, armonia e proporzioni; solamente in quel mo- mento, se le parti sono giuste ed equilibrate tra loro, il visitatore potrà percepire una sorta di commozione. Quindi nella ricerca dell’architetto comasco l’aspetto della commozione è l’elemento decisivo per far comprendere il fatto di essere in presenza di un’opera architettonica.
    Cordiali saluti con Stima e Affetto
    Davide Fent
    @davidefent

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