Si possono fare mille analisi sulla vittoria straordinaria di Alessandro Rapinese alle elezioni comunali, risultato che lo porta ad essere il primo storico sindaco civico di Como slegato dai partiti, con oltre 14mila voti personali (sebbene a fronte di un numero complessivo di votanti pari solo al 35%, cioè 25.791 comaschi su 72.147 aventi diritto). Ma i punti da tenere presenti sul serio sono essenzialmente due: da un lato, l’incarnazione che il neo-primo cittadino ha dato alla voglia diffusa di archiviare il governo dei partiti storici dopo lustri di gravissimi insuccessi (seconda giunta Bruni), mandati incolori (esecutivo Landriscina) o estremamente divisivi e incagliati su opere simbolo (giunta Lucini, con calvario paratie); dall’altro, gli errori decisivi del centrodestra cittadino in questa tornata, che sommati a una parabola generale discendente, hanno spianato la strada a quella che resterà comunque un’impresa senza precedenti del vincitore.
Bisogna andare necessariamente sulle interpretazioni più politiche per dare una “forma” a quanto accaduto la notte scorsa. Scelta forse non scientifica in senso assoluto, ma semplicemente perché i numeri in sé sono già persino troppo chiari e incisi nella pietra per meritare chissà quali lambiccamenti: Rapinese ha vinto in 63 sezioni su 74, dunque praticamente in qualsiasi quartiere della città, raccogliendo una fiducia trasversale con relativo travaso di preferenze a ogni latitudine sociale e in ogni anfratto di storia politica della città. Di contro, la sfidante Barbara Minghetti – pur dopo l’ottimo risultato del primo turno con 12.159 voti e il 39% – non solo non ha incrementato il bottino, ma ha addirittura lasciato quasi mille schede sul terreno (il dato finale di domenica è di 11.345, -814). Il candidato vittorioso ha compiuto l’impresa esattamente opposta: partendo dal già notevolissimo 27,3% del primo turno, è poi volato dagli 8.439 voti del 12 giugno ai 14.067 della notte scorsa (5.628 in più). Questo exploit significa una sola cosa: Rapinese ha intercettato come una calamita praticamente il 100% dei voti in libera uscita (e tornati alle urne) sia dal centrodestra (Giordano Molteni ne prese 8.336) sia da altre liste di varia collocazione (serbatoi parzialmente “saccheggiati” dal civico sono stati con ogni probabilità anche quelli di Adria Bartolich, Roberto Adduci e Fabio Aleotti).
Insomma, se è certamente vero che il nuovo sindaco è tale dopo una bassa partecipazione al voto – che pure gli è valsa mille voti personali in più rispetto ai 13.045 presi da Landriscina nel 2017 – è altrettanto certo che il radicamento del suo successo è ramificato su tutto il territorio ed è obliquo rispetto a credo e fedi un tempo consolidati. Una base di partenza se non perfetta, certamente ottimale.
Passiamo dunque all’altro elemento assolutamente decisivo per l’esito di queste elezioni: il ruolo del centrodestra, pur rimarcando ancora la mancata capacità espansiva propria di Minghetti al ballottaggio (elemento su cui la candidata e le liste a sostegno, a partire dal Pd che pure ha incassato un ottimo 20%, dovranno interrogarsi: la candidata con i suoi 11.345 voti ha preso 345 schede meno di Maurizio Traglio nel 2017, che arrivò a 11.720 con la stessa affluenza del 35%: che il limite fisiologico del centrosinistra a Como, oggi, sia quello? Che sia quota 11-12mila il muro invalicabile di quella coalizione, a dispetto degli sfidanti diversi? Un bel tema da sviscerare prossimamente).
Dicevamo, il centrodestra. Oggi appare ridotto in macerie e gli scambi violentissimi di accuse nelle ore immediatamente seguenti il primo turno lo hanno dimostrato (e lo stanno dimostrando in tutta Italia). Eppure Giordano Molteni non è arrivato al ballottaggio per soli 103 voti di differenza con Rapinese, poco più di un soffio. Si è detto mille volte – con una semplificazione che poi forse così semplificatoria non è – che sarebbe bastata la presenza di Vincenzo Graziani e dei suoi 223 voti nella coalizione perché la storia fosse completamente diversa. Stando alla matematica, una possibile verità. Che, però, non può nascondere i temi politici di fondo, ovvero: l’assenza totale di Forza Italia dalla partecipazione attiva alla campagna elettorale, il risultato pessimo della Lega al suo minimo storico (e anch’essa non proprio un vulcano di entusiasmo durante la corsa dei mesi scorsi) e sicuramente la scelta di un candidato sindaco degnissimo in sé ma individuato a Lipomo, calato all’improvviso in una realtà politica complessa come quella del capoluogo e che non ha esercitato una forza attrattiva in più verso la coalizione rispetto alla pura sommatoria dei partiti che la componevano.
Con il senno di poi, viene da pensare che se al posto dell’annuncio dello stesso Molteni di Sergio Gaddi possibile assessore alla Cultura, fosse stato Gaddi il candidato sindaco ad annunciare un qualche ruolo per Molteni, le cose sarebbero potute essere diverse. Ma forse, per colmare quel gap delle 103 preferenze, sarebbe stato sufficiente un volto più noto agli elettori del capoluogo e più esperto delle cose e delle strategie per Palazzo Cernezzi (la forza di Rapinese nel proporsi come padrone della “macchina comunale” è stata d’altra parte una delle sue carte vincenti). Ora, invece, di quella che un tempo fu l’invicibile armata del centrodestra restano 5 consiglieri complessivi di opposizione divisi tra i vari partiti, un mancato ballottaggio e una coalizione politica che sta assieme più per dovere che per convinzione. In sostanza, se Rapinese ha compiuto un’impresa autentica ed eccezionale, e il centrosinistra è alle prese con una sconfitta cocente e con il dubbio di un proprio limite difficile da superare, dove davvero serve pensare a una ricostruzione radicale è proprio il campo di chi, fino a 24 ore, aveva il timone della città.