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Como e i migranti: “L’oratorio di don Giusto risponde a un’emergenza cronica. Istituzioni, parrocchie e vertici ecclesiastici lo lasciano solo”

Come noto qualche settimana fa il sindaco di Como, Alessandro Rapinese, ha spiegato come (naturalmente a suo dire) a Como i fedeli sarebbero in fuga dalle chiese che aiutano i migranti. Nei giorni scorsi è arrivata la risposta di Don Giusto della Valle, parroco di Rebbio e Camerlata, da sempre in prima linea per chi ha bisogno migranti e non. Rispondento agli “ecclesiologi e sociologi” (Rapinese appunto), il sacerdote ha lanciato l’iniziativa delle ‘coccolazioni’. Trovate tutto qui: Rapinese e “i fedeli in fuga dalle parrocchie che aiutano i migranti”. Agli “ecclesiologi e sociologi” risponde don Giusto: “Basta colazioni, ecco le coccolazioni”.

In questo solco riceviamo e molto volentieri pubblichiamo un’ampia e profonda riflessione di Marco Corengia, giornalista ed ex candidato alle ultime elezioni comunali con il Partito Democratico.

Le coccolazioni di don Giusto in risposta alle accuse di Alessandro Rapinese che se la prende contro i preti troppo impegnati nell’accoglienza, hanno portato a una polarizzazione delle posizioni che sta banalizzando la questione.

Il primo elemento su cui converrebbe ragionare – unico presupposto dal quale partire prima di formulare ogni ragionamento – è la scarsa consapevolezza del messaggio cristiano.
Il Cristianesimo, che ci piaccia o meno, è un messaggio universalistico che parla all’uomo indistintamente.

Anche se a qualcuno potrà sembrare sconvolgente, l’uomo è uomo, a prescindere dal colore della pelle. E se anche volessimo farne una questione di pigmentazione restando fedeli alla geografia dei vangeli, dovremmo comunque parlare di tratti mediorientali. Alla faccia di un’iconografia che ha fatto della Sacra Famiglia un bouquet del Valdarno.

Questo don Giusto lo sa bene, e nel suo sostegno agli ultimi si sottrae alla tentazione di una carità autarchica rivolta “prima ai nostri”. Fedele alla Chiesa di Papa Francesco, il parroco di Rebbio decide di guardare proprio lì – agli ultimi – e da quelli partire. E lo fa da un luogo che è sempre stato spazio di rimescolamento, contrasto, accoglienza e integrazione.
Chi ha vissuto a Rebbio ricorderà benissimo l’impegno di don Italo Mazzoni (ora parroco a Lenno) nel cercare risposta all’immigrazione meridionale che aveva trovato in via Di Vittorio luogo di sedimentazione e (auto)isolamento. Il tutto in un contesto – quello degli anni ’80 – intossicato di micro-criminalità ed eroina.

E forse è proprio qui, nel confronto tra la Rebbio di oggi e quella di quarant’anni fa, che si può cercare una chiave di lettura che dia senso al presente. L’oratorio di don Italo era un ambito nel quale tutti – comaschi vecchi e nuovi – trovavano spazio. Non senza tensioni, certo; ma condividendo percorsi scolastici e attività sportive. L’oratorio di don Giusto è invece una risposta permanente a un’emergenza cronica che non troverebbe altra soluzione.

Ph: Matteo Congregalli

A don Giusto portano minori non accompagnati senza casa e senza speranza. A lui viene affidata la gestione di una casa famiglia perché in lui si cerca una garanzia di impegno e dedizione.
Le scale che portavano alle aule di catechismo oggi hanno mille odori diversi, le docce dove ci lavavamo a fine allenamento ora sono a disposizione di tutti.  A ben guardare, scopriamo che, a essere cambiata in questi quarant’anni, è la radicalità del disagio. Ma se l’altro mondo ci è piombato in casa, non si può certo farne una colpa a don Giusto. E nemmeno si può prendersela con l’altra metà del mondo che ha l’arroganza di esistere e di provare a sopravvivere.

Caso mai bisognerebbe fare i conti con chi si gira dall’altra parte e non fa abbastanza. Con chi non riesce o non vuole farsi carico di un pezzo di questa emergenza. Tra le tante accuse che vengono rivolte a don Giusto, la più ipocrita di tutte è quella di non fare il prete ma di fare politica. Come se fosse possibile parlare alle anime trascurando il fatto che queste abbiano anche un corpo, fame e sete.

È la stessa cosa che rinfacciavano a don Lorenzo Milani, ai preti operai, a Giovanni Franzoni e alle comunità cristiane di base, per arrivare fino all’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero.
Se è vero che nel suo prendersi cura degli ultimi don Giusto può perdere di vista penultimi e terzultimi, se è vero che qualcuno può aver abbandonato la parrocchia perché non riesce a ritrovare lo spazio nel quale si riconosceva prima, non è certo colpa del prete, ma di chi – istituzioni pubbliche, parrocchie e vertici ecclesiastici – lo lascia solo a fare il proprio lavoro.
Non credo che don Giusto sia soluzione. Ma se in ogni chiesa ci fosse un don Giusto, probabilmente non esisterebbe il problema.

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6 Commenti

  1. Nella premessa al pezzo avevo sottolineato quanto l’argomento fosse articolato e complesso, e per questo meritasse una lettura “alternativa”, che andasse oltre la polarizzazione nei due schieramenti di favorevoli e contrari.
    Al contrario, i commenti (parecchi peraltro) al post hanno dimostrato quanto sia diffusa la tendenza a ignorare complessità e contraddizioni; sostituite dal bisogno di evidenziare di un testo solo quello che conferma le proprie posizioni, tralasciando tutto il resto.
    Provo quindi a fare un banalissimo esercizio di comprensione del testo, anche solo per rendere giustizia a quello che ho scritto.

    – Don Giusto interpreta al meglio il messaggio universalistico del Cristianesimo. Messaggio al centro della chiesa di papa Francesco.
    – Coerente al “Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, don Giusto si fa carico di anime altrimenti dimenticate. Anime di cui Cesare non si interessa per niente. Occuparsi di migranti e minori non accompagnati – è bene ricordarlo – è un obbligo di legge. Appartiene quindi a Cesare. Ma se Cesare fa finta di non saperlo, non è certo colpa di don Giusto.
    – Proprio perché si fa carico di quello che dovrebbero fare altri, quello di Rebbio, più che un oratorio come quelli che abbiamo conosciuto finora, è diventato un centro di emergenza permanente. Qualcosa si guadagna ma qualcosa anche si perde.
    – In quanto centro di emergenza permanente, l’oratorio di don Giusto è un modello che non può essere replicato. Al contrario, la pressione che gravita tutta su Rebbio andrebbe diluita su un’infinità di altre strutture.
    – Proprio perché risposta emergenziale, fossi nel campo progressista smetterei di guardare al “metodo don Giusto” come un esempio replicabile su ampia scala. Più che da riferimenti ideologici universalistici fondati sulla fede, muoverei da soluzioni che legano l’integrazione all’inserimento nel sistema lavorativo. Nello specifico la lotta senza quartiere al lavoro nero e la sua sostituzione con il lavoro regolare, dove il migrante potrebbe trovare spazio attraverso il sistema delle quote.
    – Sempre mossi da un inevitabile pragmatismo, non si può non considerare il problema dell’esplosione demografica dell’Africa, specie se messo a confronto con la riduzione delle risorse conseguenza del cambiamento climatico.
    E questo non possiamo certo chiederlo a Dio.

  2. Don Giusto è stato il nostro parroco per i 10 anni della nostra vita passati a Como, Rebbio, zona Ca’ Morta.
    Mi ha cresimato; da lui abbiamo fatto il corso per fidanzati; poi ci ha sposati; ha battezzato i nostri figli (l’ultimo porta il suo nome e quello dell’allora vice parroco, don Federico).
    Nei limiti del nostro possibile, abbiamo cercato di restituire a lui e alla nostra comunità quello che abbiamo potuto, prendendoci cura del gruppo ministranti per 2 anni e partecipando alle sue iniziative, sia organizzativamente che da semplici partecipanti.
    Abbiamo vissuto l’ostracismo che, in parte, ha tentato di colpire la sua azione pastorale, caratterizzata dall’accoglienza degli ultimi, i più problematici, i più difficili, i dimenticati.
    Ma abbiamo sperimentato anche il coinvolgimento e la passione di chi, magari inizialmente diffidente, magari apertamente contrariato, ha poi abbracciato, con noi, la sua missione, dopo aver guardato negli occhi dei bambini, delle mamme, dei ragazzi, degli uomini che scorrazzano su e giù per l’oratorio.
    Abbiamo cenato e pranzato con lui, nell’oratorio, con i suoi “ospiti”. Ospiti che diventavano “nostri”, fino a diventare tutti un solo “noi”: ognuno portava qualcosa della propria tradizione culinaria da mangiare, per poi condividerlo. I sapori ed i profumi si fondevano, si mescolavano, come i racconti delle proprie esperienze, delle proprie sofferenze, delle proprie speranze. Tutto si condivideva, tutto si trasformava da “mio” a “nostro”, da “io-voi” a “noi”, tra idiomi diversi, traduzioni fatte alla buona, ma sotto sguardi universali, di apertura, condivisione e disponibilità.
    Quando venne a Napoli a sposarci, tutto il tempo del ricevimento lo passò fuori la struttura a parlare con i giovani in scooter, a confrontarsi con loro.
    Questo è don Giusto. Questa la nostra esperienza con lui e con la sua opera pastorale, che tanto ci manca qui a Napoli. Certo, non è tutto oro quello che luccica. Qualche sua parrocchiana gli ripeteva in faccia che aveva soprattutto 3 difetti: prete, uomo e montanaro. E forse è vero. La testa dura non gli manca.
    Ma, credetemi, basta lasciarsi coinvolgere nella sua opera missionaria, lasciarsi andare ad essa, viverla da vicino, dal di dentro, sperimentarla, per capirne le ragioni e le motivazioni, per apprezzarne le intenzioni. E, magari, per mettersi in gioco, anche con poco.
    Evviva don Giusto.
    E, se qualcuno lo incontra, gli porti, per favore, un grande abbraccio dai suoi “figli” e amici di Napoli!

  3. Sig. Sergio, non entra e vuole entrare nel merito però sentenzia e chiosa o meglio non vede giusto quanto il parroco di Rebbio, fa.
    Provi almeno ad anteporre la questione umanitaria a qualsiasi altra scelta politica, amministrativa e credo troverà la risposta
    Saluti e confidi nella misericordia del Signore affinché non le manchi mai nulla .

  4. Nessuno ha aperto all’immigrazione incontrollata e i problemi dell’Italia non sono colpa degli immigrati ma degli italiani.
    Certo quando si muovono miglioni di persone è inevitabile che una quota di esse siano dei criminali altri lo diventano se vengono marginalizzati da una società razzista.
    Per quanto riguarda il servizio sanitario pubblico la colpa è di chiare scelte politiche a favore del privato e di chi le tasse non le ha mai pagate, pur continuando ad usufruirne, e non degli immigrati.

  5. Non è solo un problema di parrocchie ma soprattutto di politica. Stendiamo un velo pietoso sul governo che ci ritroviamo in Italia e sulla giunta lombarda.

    1. Più che stendere un velo pietoso sul governo attuale dovremmo farlo sui molti governi che l’hanno preceduto, i veri responsabili dell’attuale società. Avere aperto all’immigrazione incontrollata è stato un atto criminale che non ha risolto il problema immigrati ma ha compromesso gravemente la nostra società, la nostra sicurezza e il sistema sanitario e tutto questo ha responsabilità politiche ben precise. Non entro nel merito delle scelte di Don Giuto ma di giusto ci vedo proprio poco.

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