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La domenica andavamo a Villa Olmo: dal villaggio eccitato al Nulla. Chi spiega?

La domenica andavamo a Villa Olmo. Iniziammo nel 2004 con Mirò, abbiamo smesso nel 2016 con i bagliori crepuscolari di Radice, di De Chirico e del dimenticabile Vesuvio firmato Wahrol.

Però era bello. Ne iniziavi a parlare settimane prima, forse mesi. Come in tutte le città di provincia – di una provincia in cui fabbrica, bottega e paesaggio hanno sempre sovrastato per interesse i nasi storti e i seni cubici di Picasso – l’arrivo di una mostra nel villone del villaggio suscitava lampi di euforia paesana, fremiti di curiosità, bagliori di festa genuina. Toglieva a tutti un po’ di grasso dalle mani, la cosiddetta “GRANDE MOSTRA”.

Ne parlavano i giornali, uscivano le telecamere, sbucavano i primordiali telefononi. Si infervorava la politica che pure non distingueva Guernica da Capiago, sbucavano critici di peso e talvolta assai pesanti, c’era tutto un gran nitrire di cultura, kultrkampf e krapfen che animava sia i saloni con gli affreschi, sia i tinelli più modesti.

Era la Como che – grassoccia e forse un po’ annoiata – sbucava dal suo baco impolverato. Per piazzarsi in massa lì, mediamente attorno a marzo, e sentirsi un po’ più chic, al centro di qualcosa che non fosse piazza Duomo, aspirante a lunghe file e discorsoni per sciamare poi, estasiata o disattenta (con la tartina nel mirino), tra quadretti, maxi quadri, installazioni o fetecchie ben vestite.

E le inaugurazioni, poi! Quel diavolo d’un Gaddi, così tronfio e teatrante, che pareva un baritono politico tra grandi pipe senza un perché, capolavori d’arte russa, qualche crosta ben mimetizzata. Incantava tutti, però, quello scugnizzo trapiantato a fil di lago: chi lo amava (molti, a essere sinceri), chi lo detestava (molti a essere sinceri).

Ma era così glamour l’Inaugurazione-Della-Mostra con i suoi cappotti ben stirati e quei tacchi vertiginosi, che il comasco cedeva sempre un po’ alle lusinghe di Magritte, dei Fiamminghi, dei fiammoni pirotecnici o del Vittorio nazionale che piazzava lo spettacolo a mezza via tra il porno e la magia, in qualche notte fonda.

Migliaia di persone, titoloni, Villa Olmo caput Larii, prosopopea e tronfiaggine allo stato brado. Ma la città era eccitata, sia dall’arte sia dai buchi di bilancio. Era tutto un brividino il trimestre culturale del paesone.

Poi c’è stato il Cavadini. Meno frivolezze, con Luigi – sopraffino professore di una gentilezza mai scomposta. Niente veste da James Bond, un paradossale #primainostri ante litteram (Sant’Elia su tutti), mostre meno fashion ma comunque meritorie di “una domenica ci andiamo”. E giù a parlarne, a criticarne, a esaltarne.

Poi, quel 29 novembre di 4 anni fa, la porta del villone ha sbattuto. Chiusa. La festa (eccessiva in Sergio-Mode o frugale in Luigi Style) era finita. I comaschi non lo sapevano, ma finita si intendeva per sempre, pare. Quasi un quindicennio cancellato, sacrificato sull’altare della botanica, dei roseti, dei cantieri mai partiti o già finiti senza esiti palpabili.

L’altare è quello di una Villa Olmo messa in tanga: elegante pizzo fresco sulla facciata, un elastico ammollato sul deretano. Idrovora di soldi pubblici e privati che si consegna esattamente come tre lustri fa: aperta quando capita di sotto, chiusa e indegna di un cugino truzzo di Chagall al piano sopra.

La domenica del villaggio è terminata. Altrove proliferano le mostre, i mostri, esposizioni, trionfi (vacui o meritori) d’arte, artisti o Teomondi Scrofali. Qui, più niente.

Qualcuno, un giorno, lo spiegherà perché i Surrealisti sono a Lugano, il Rinascimento a Rancate, “Inside Magritte” a Bergamo, la favolosa “Animali nell’arte” a Brescia e Segantini ha appena fatto tappa a Lecco. Qualcuno spiegherà, un giorno, perché a Varese Villa Panza è un gioiello d’arte e di architettura.

Qualcuno, un giorno, spiegherà perché Villa Olmo è ancora uno scatolone vuoto e malandato, senza quadri né sculture, dal futuro incognito e pauroso, mentre Como non freme più per la domenica, appende smoking e paillettes e torna al bozzolo, nel retrobottega culturale del mondo.

Qualcuno spiegherà?

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2 Commenti

  1. Eh no caro Emanuele, scorretto prendersela col parco. Se non esistesse e non fosse bello, la villa sarebbe solo un grande scatolone. Scorretto identificare un “altare della botanica e dei roseti” su cui il resto del compendio sarebbe stato sacrificato. Capisco che per lei il verde non sia importante, ma per favore non condanni l’unica cosa che, anche d’inverno, gratifica molti cittadini e visitatori. Da ultimo, nel parco non c’è alcun roseto, ma solo due piccole aiuole secondarie dedicate a questo pur splendido fiore.

  2. Perché .dopo infiniti incontri.e ponderate proposte di cambiamento ,hanno preso finalmente una decisione che cambierà la vita di tutti noi. Via Cadorna deve cambiare nome. Evviva evviva

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