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Ne è rimasto uno solo (o quasi). Storia di 10 anni: spunti sul nanismo politico di Como

Riconoscimento d’autore: la foto di testata in cui è immortalata l’ultima giunta Lucini è di Fabio Cani, scattata per Ecoinformazioni. Lo stesso autore spiega in questo articolo la particolare genesi dell’immagine che prendiamo “in prestito”, poiché largamente la migliore in circolazione.

Forse negli ultimi 11 anni di storia politica della città di Como c’è una spiegazione (parziale, ci mancherebbe) sul terribile affanno del capoluogo a farsi valere sui tavoli che contano oltre Rebbio a sud e Ponte Chiasso a nord. A contare quando serve davvero, insomma.

Si dirà: è Milano, Palazzo Lombardia e non Cernezzi, il luogo dove davvero servirebbe pesare per risolvere problemi ormai atavici come Ticosa e lungolago, per affrontare macro questioni come la lotta all’inquinamento, la difesa dell’ambiente, la balneabilità al Lario, oppure per ipotizzare progetti viari con il respiro più lungo di una Marlboro tipo metrotranvia o simili.
O forse in realtà è Roma – la Città Eterna o la Suburra millenaria a seconda delle interpretazioni – la culla dove il metaforico virgulto comasco dovrebbe dare ai discendenti di Cesare ciò che è dei discendenti di Cesare. Tutto verissimo: parliamo tanto di Como, della bella Como, talvolta persino della “grande Como” e sovente ci si dimentica che questo angolo di terra e acqua benedetto dal Dio Panorama è in fin dei conti un placido agglomerato di 85mila anime – poco più di un rione di Milano – per di più in quella zona dove si è e non si è: il confine.

Eppure, tornando all’origine, nell’ultimo decennio abbondante di vicende cittadine, si può comunque scorgere qualche elemento di riflessione sul perché questa benedetta città sovente appaia più debole del dovuto, meno accreditata nel necessario, fragile oltremodo nelle proprie rivendicazioni rispetto a centri cugini e vicini (Varese dice qualcosa?).

Smascheriamo subito la tesi di fondo di questa – parzialissima, certo – analisi: la sostanziale scomparsa dalla prima fila della politica cittadina che ha costituito l’ossatura per due schiere di amministratori tra il 2007 e il 2017 è il fulcro del ragionamento. Avvalorato da un fatto raro, per Como: l’alternanza al potere di compagini di colore politico diverso.

Andiamo dunque alla primavera del 2007. Stefano Bruni – l’astro locale del Berlusconismo alla Formigoni – si conferma sindaco per la seconda volta. E lo fa al primo turno. Il commercialista prestato alla politica – giovane, brillante e ciellino doc – è all’apice della sua carriera politica: pur tra le polemiche note, nel gennaio precedente aveva abbattuto la Ticosa. E – anche qui, non senza poderose voci contrarie – di lì a pochi mesi avrebbe dato il via al cantiere per le paratie e soprattutto al rifacimento dell’intero lungolago. Perché questo era il vero boccone pregiato, ai tempi.

Della sua giunta facevano parte: Paolo Mascetti, Francesco Scopelliti e Fulvio Caradonna per An, Sergio Gaddi, Umberto D’Alessandro, Anna Veronelli, Paolo Gatto, Alessandro Colombo ed Enrico Cenetiempo per Forza Italia, Diego Peverelli e Maurizio Faverio per la Lega Nord. Ma già nel 2008, per un’alchimia tutta di palazzo, avvenne il primo cambio: Paolo Mascetti venne dirottato in Provincia, al suo posto – proprio da Villa Saporiti – arrivò Francesco Cattaneo. Poi, è arrivato tutto il resto: il muro sul lungolago (2009), le dimissioni e un sostanziale addio alla politica di prima linea di Caradonna, l’impasse sulla Ticosa, una dilaniante guerra interna tra le varie correnti di Forza Italia (corse il sangue tra Bruni e l’allora potentissimo Gianluca Rinaldin).

Nel febbraio del 2009, erano iniziati i valzer: via Paolo Gatto e Umberto D’Alessandro, (destinato alla presidenza di Acsm, ora vice con l’aggiunta di Agam), addirittura revocato Alessandro Colombo, entrano nell’esecutivo Ezia Molinari, Roberto Rallo ed Etta Sosio. Ma giù nell’autunno del 2009, il subentrato Cattaneo si dimette mentre Roberto Rallo – in rotta con Bruni – viene a sua volta revocato. Con questo assetto – e in una crisi politica profonda, irrimediabile, devastante – il centrodestra langue, sanguinando, fino al maggio 2012.

Il fu esercito destrorso, ormai spappolato, si presenta alle elezioni addirittura diviso in due: da un lato il Pdl a sostegno di Laura Bordoli, dall’altro Sergio Gaddi candidato sindaco di una civica che include Anna Veronelli. Inutile dire che Mario Lucini e il centrosinistra conquistano in scioltezza Palazzo Cernezzi.

Il neosindaco presenta la giunta. Ne fanno parte Silvia Magni e Marcello Iantorno per il Pd, gli indipendenti Giulia Pusterla, Daniela Gerosa e Luigi Cavadini, Gisella Introzzi per la civica “Amo la mia città”, Lorenzo Spallino per Como Civica e Bruno Magatti per Paco-Sel. Giulia Pusterla lascia quasi subito. Poi, nell’ottobre 2014, ecco il rimpasto vero e proprio: arrivano Savina Marelli da Mariano Comense per il Pd e l’esterno Paolo Frisoni, dopo poco lascerà invece la squadra Gisella Introzzi. Il mandato si sviluppa su binari noti: scelte coraggiose ma anche molto divisive (Ztl e nuove piazze su tutte), qualche vistoso successo (recupero ex Trevitex in primis), lo stallo sulla Ticosa e poi la mannaia Anac calata sulle paratie a tirare giù il sipario.

Giunta Landriscina

La fine della storia è nota: nel giugno 2017, il centrodestra torna al comando della città con Mario Landriscina sindaco. E qui, dopo tanta (e necessariamente compressa) cronistoria, veniamo al dunque. Alla domanda clou: di tanta classe dirigente, cosa è rimasto una decade dopo? O meglio, chi è rimasto? Quasi nessuno, almeno nel palazzo che – piaccia o meno – decide.

Di tutto il centrodestra del Bruni bis, sono ancora sulla scena attiva – cioè restano ancora in grado di incidere, nei limiti, con l’operato quotidiano – in due: Anna Veronelli, oggi presidente del consiglio (ma forse, soprattutto, assessore mancato) ed Enrico Cenetiempo, nominalmente in Forza Italia ma molto battitore libero. Tutti gli altri sono scomparsi dalla ribalta, chi del tutto (Bruni, Gatto, Sosio, Mascetti, Caradonna, Scopelliti, Cattaneo, Molinari, Faverio), chi in buona parte (Peverelli, Gaddi), chi per ruoli parapolitici (D’Alessandro in Acsm Agam) ma persino su sponde diverse dalle originarie (sempre D’Alessandro, che nella primavera scorsa appoggiò Maurizio Traglio).

Forse ancora più clamoroso il caso del centrosinistra al potere ancora soltanto 10 mesi fa: con l’unica eccezione di Bruno Magatti (oggi consigliere di opposizione per Civitas), un’intera giunta è sparita non soltanto dai banchi del consiglio ma persino da ruoli pubblico-partitici di rilievo (al netto, ovviamente, di attivismi social o di defilati ruoli da militanti di base o da informali consiglieri per chi oggi si trova sul “palco”, in virtù dell’esperienza ancora molto fresca).

Siamo dunque al punto: se è certamente vero che per qualche imperscrutabile motivo questa città ha la tendenza a fagocitare i suoi figli politici (pure con storie diversissime e sovente non paragonabili tra loro), e se è altrettanto certo che qualcuno ha pagato con l’oscuramento responsabilità certamente eccessive, epocali e ingenerose rispetto a eventuali demeriti (probabilmente su tutti Mario Lucini, Lorenzo Spallino e nell’altro campo Sergio Gaddi), di sicuro si può affermare che il caso Como smentisce in maniera categorica l’assunto della politica che perpetua se stessa. Ma questo accade all’eccesso, in generale – mentre stabilire il grado di “giustizia” per i singoli sta nell’analisi di ciascuno.

Resta il fatto incontestabile, però, che un azzeramento vicino al 100% di due intere giunte di capoluogo dimostra la palese fragilità “a prescindere” dei gruppi politici e delle loro espressioni fisiche che hanno avuto tra le mani il timone di Como. E se i voti degli elettori (o le personali decisioni di non ricandidarsi) restano giudici supremi, almeno secondo i dettami della democrazia, emerge ad ogni modo chiaramente come sia difficile, per un capoluogo che divora in maniera così famelica se stesso e le sue classi dirigenti, costruirsi anche davanti ai “competitor” di altri territori un’immagine forte, vigorosa, credibile e autorevole nel tempo per ottenere i riconoscimenti a cui anela. Da qui, forse – o almeno anche da qui – si potrebbe partire per analizzare il nanismo politico della città, da troppo tempo non in grado di esprimere una classe politico-dirigente riconoscibile, ritrovabile nel tempo, generata dal territorio e lì ancorata, ma in grado di portare anche in altri lidi un bagaglio di esperienza, maturità e riconoscibilità capace di fare la differenza. O almeno di non segnarla in negativo per la città.

La domanda finale, intanto, è: chi resterà, domani, della giunta Landriscina?

redazionecomozero@gmail.com

Giunta Landriscina

 

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Un commento

  1. In realtà Como ha cominciato a contare sempre meno, fino ad arrivare al clamoroso ‘commissariamento’ di Palazzo Cernezzi sul progetto-lungolago e alla menzionata scomparsa di due intere Giunte dal panorama politico di primo piano, da molto prima. Dal millennio scorso, se vogliamo dirla tutta. Dalla seconda Giunta Botta. Da quando il gruppo di parlamentari espresso dalla ‘nuova’ classe dirigente politica formatasi in quegli anni di Seconda Repubblica sull’onda del berlusconismo, ha perso ogni contato con il territorio preferendo concentrarsi su giochi politici personali a livello nazionale. Non mi sovviene in mente alcun intervento di rilievo, a partire da quegli anni, da parte dei nostri parlamentari, interventi di quelli che portano soldi e progetti in grado di cambiare il tessuto economico e sociale di un territorio. Chiaro che se i rappresentanti a livello nazionale per primi non si interessano alla realtà e alle necessità dei loro elettori, nessun altro lo farà al loro posto. E i vicini di casa avranno buon gioco nell’accaparrarsi investimenti, fondi, progetti, ruoli. Insomma, il declino di Como è ancora piu’ ‘antico’ e profondo di quanto si possa credere.

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