Com’è triste, senza orizzonti, questa Como che si fa sedurre da uno stagno putrido e probabilmente inquinato in Ticosa. Com’è grigia, senza la capacità di un battito d’ali seppur minimo, questa città che non ha il coraggio di andare oltre una colata di cemento dove un tempo ne pulsava il cuore industriale. Ma soprattutto come è senza idee, questo capoluogo piccolo piccolo che – almeno da un punto di vista amministrativo e politico – da quattro decenni solleva solo carta ed enormi polveroni su quei 40mila metri quadrati tra cimitero e tangenziale.
E attenzione, qui non si è per nulla attaccati al mantra della presunta “area strategica”, visto che – lo dice la storia – è così strategica che nessuno ha saputo metterci nemmeno qualcosa di puramente tattico in 41 anni.
Certo, di rendering, disegnini, slogan, fantasie e persino polverosi abbattimenti se ne sono visti in tutti questi lustri. Ed è persino vero che almeno in un paio di casi (la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e poi la pandemia da inizio 2020) il destino ha voltato le spalle in maniera rude a qualche vagìto di futuro. Ma, per converso, se ne può dedurre che anche all’epoca i progetti messi in campo (il maxi insediamento di Multi, lo spostamento di Comune e uffici) poggiassero su gambette fragili, deboli, contingenti. Del tutto inadeguate di fronte a uno scenario di lungo periodo che pure, per avere un senso se proiettato nel domani, dovrebbe inevitabilmente considerare anche gli eventi avversi.
E allora, ecco che quattro piante disordinate in mezzo ai calcinacci e una pozza d’acqua maleodorante fanno sognare boschi urbani a due passi dalle lapidi e dal traffico (mentre il San Martino muore nell’abbandono e i giardini a lago aspettano il rilancio), oltre agli immancabili posti auto (che per carità, servono eccome, ma qualcuno lo vede il mondo che cambia anche sul fronte della mobilità, o no?), fino a maxi aree cani.
Le persone, però, quelle non ci sono mai: ragazzi, studenti, amanti della cultura, qualcuno che non abbia solo l’aspirazione a raccogliere cacche nei sacchettini blu o a piazzare il cubo di latta turbodiesel in una landa desolata 23 ore al giorno, no, questi non ci sono mai.
A questo punto, che non sia facile immaginare in maniera concreta, fattibile e sostenibile un rilancio dell’area Ticosa, lo diamo per assodato. D’altronde non è possibile che siano stati soltanto incapaci ad alternarsi in 40 anni di governo locale e non solo locale.
Ma a chi verrà dopo – dopo questa amministrazione agli sgoccioli, almeno – è davvero chiedere troppo di non accontentarsi della “bellezza” di uno stagno inquinato e di quattro alberelli al veleno e pensare qualcosa di meglio rispetto a una grande pennellata di conglomerato bituminoso?
Ci possiamo fare un pensiero alle esigenze della città del 2030, magari, anche solo per innescare un dibattito che alla vigilia delle elezioni, non dico voli alto, ma almeno non affoghi in uno stagno o valga qualcosa più di “un euro un’ora-tre euro tutto il giorno” ? Le persone ce le possiamo immaginare un domani fruire di quella zona, magari impegnate in attività o attrazioni diverse dal raccogliere cacchine di pelosetti o abbandonare monoliti di latta sotto al cimitero?
E se proprio-proprio ci volessimo soltanto una nuova Lampugnano lì, le colonnine elettriche ce le mettiamo? E le navette ogni 10 minuti per il centro finanziate con i soldi del posteggio, le pensiamo?
Altrimenti facciamo così: un bel prolungamento del cimitero e chiusa lì. Ci andremo in pace, in Ticosa, finalmente.