Questa mattina, mercoledì 19 novembre, c’è stato chi è sceso a controllare se ci fossero motoseghe in azione sui ciliegi di via XX Settembre alle 5.11 del mattino. Le 5.11 del mattino.
E’ solo un esempio tra i tanti, perché potremmo riferire di chi ha firmato per sospendere gli abbattimenti all’alba, passando prima di correre al lavoro. O di chi ha trascorso 12 ore in strada pur di non sguarnire il simbolico presidio, a costo di trovarsi da solo o da sola. Ci sono stati i negozianti che hanno aperto le attività per accogliere i sottoscrittori, chi ha portato caffè per scaldare chi stava al freddo, chi ha organizzato turni pur di presenziare anche solo per 10 minuti.
Troppo? Eccessivo per 45 ciliegi? Sono altre le ‘vere battaglie’?
Ognuno può ovviamente dare la risposta che crede. La sostanza non cambia: quando una via, un quartiere, una comunità si mobilitano in maniera così disinteressata, senza alcun tornaconto diretto e senz’altro retropensiero che non sia l’affetto profondo per la storia e l’identità del luogo in cui si vive o in cui semplicemente si passa per ammirare un fiore in primavera, criticare resta legittimo ma sarebbe onestamente ingeneroso. Quello che almeno noi abbiamo visto tra le persone che si sono recate in questi giorni in via XX Settembre, peraltro uno dei pochi angoli ancora caratteristici e dotati di un’anima nella Como pettinata dell’ultraturismo, è semplicemente passione civica. Attaccamento alle radici: metaforiche e fisiche. Voglia di non rinunciare a un altro piccolo pezzo di storia, in una città il cui volto si fa sempre più enigmatico.
Certo, anche esponenti politici si sono affacciati al presidio. Se ne può ricavare qualsiasi idea. Ma partecipare e intervenire, in un’epoca in cui a partiti ed eletti si rinfaccia di non esserci mai, può essere davvero un problema?
Fatte queste premesse, e nell’assoluto rispetto di qualsiasi punto di vista, il cuore di queste righe è un altro.
Mentre scriviamo, le 15 di mercoledì 19 novembre, sono trascorsi quasi 3 giorni dal momento in cui operai e giardinieri avrebbero dovuto sradicare i ciliegi. Il primo giorno, l’abbozzato tentativo di avviare i lavori è stato fermato pacificamente dai cittadini. Da allora, non è accaduto più nulla. Non si è saputo più niente. Non si è più visto nessuno, né del Comune né della stessa (incolpevole) impresa (però è stata annunciata la piantumazione di una magnolia, con invito alla cittadinanza).
Si sono udite minacce di denuncia del sindaco, drammatici allarmi di morte imminente per le piante di pero, robotiche letture di relazioni tecniche sullo stato moribondo degli alberi. Ma da lunedì a mercoledì pomeriggio, a parte quegli episodi – tutti nati al caldo di uffici blindati, sale damascate o via schermi assortiti – nessuno dall’amministrazione ha trovato 30 secondi per interloquire con i suoi cittadini in strada. Né il sindaco Alessandro Rapinese (ora in Cina), né l’assessore al Verde Chiara Bodero Maccabeo, né alcun altro rappresentante del governo cittadino ha avuto il coraggio di parlare di persona (ma fosse pure via canali istituzionali) con quei comaschi, di spiegare cosa stesse accadendo, di fornire ragioni e spiegazioni, di accettare uno scambio aperto e sincero a costo di ribadire le proprie ragioni.
Da una parte, un Palazzo e il suo gruppo dirigente blindato. Dall’altra, un manipolo di cittadini che da quasi 72 ore chiede solo di potersi confrontare, di avere un contatto umano che vada oltre le prove di forza o gli ordini dall’alto. Magari, di valutare mediazioni.
In tutto questo tempo, dall’asfittico palazzo del centro, non una mail, non un whatsapp, non una chiamata né tanto meno il più volte richiesto incontro dal vivo è stato ritenuto degno di quel pacifico gruppo di persone. Anche solo per dire: quegli alberi spariranno, nuovi peri fioriranno, ecco quando e perché.
Qui sta la vera ferita del caso ciliegi, persino oltre il destino delle piante in sé: nel fossato di silenzi e di alterigia che chi governa ha scavato con una parte della sua comunità. Un buco profondo, dove nulla di buono può germogliare.