Mattia Vacca sta tutto in un’immagine: “Una valigia sempre pronta in soggiorno”.
Perché lui, fotoreporter comasco, non riesce a finire un progetto senza pensare subito al prossimo.
E scorrendo il suo curriculum (serve tempo, perché è davvero lungo) ti domandi come abbia fatto, in poco più di quarant’anni, a fare così tante cose: esposizioni in tutto il mondo, libri (alcuni pubblicati dalla casa editrice che lui stesso ha fondato, la Delicious) e tanti, tantissimi premi e menzioni.
Quasi 100, tra cui spicca il secondo posto al prestigioso Sony World Photography Awards nel 2012: “Non me lo aspettavo. Rappresenta lo stato dell’arte del fotogiornalismo e vincerlo ti mette in una categoria differente. Ma oggi il lavoro con cui l’ho vinto (S’ardia, un fotoreportage dedicato all’omonima corsa di cavalli nel cuore della Barbagia) mi sembra vecchio, non è più quello che faccio”.
Oggi Mattia ha, si passi il gioco di parole, obiettivi nuovi. “Ora mi interessano le zone di confine, soprattutto raccontare la vita delle reclute, per lo più giovanissime. L’ho fatto in Lituania, dove ero stato invitato alla Biennale d’Arte di Kaunas con il mio lavoro sul Carnevale di Schignano e sono finito nella foresta a documentare la vita e l’addestramento di alcuni dei 3000 ragazzini chiamati alle armi dal ripristino della leva obbligatoria”.
Un tema che ha ripreso in un altro lavoro (La guerra dimentica del Nagorno-Karabakh) che, l’anno scorso, gli è valso un altro prestigioso riconoscimento, il Lugano Photo Days 2018: “È stata la prima guerra della mia vita, tutte le altre volte mi ero occupato di situazioni post belliche. Sono arrivato lì nel 2017, quando il conflitto si era appena inasprito e ho raccontato in 12 scatti la vita delle giovanissime reclute dell’esercito di questo stato non riconosciuto e conteso tra Armenia e Azerbaijan”.
A cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto ultimando un lavoro molto importante per il Corriere della Sera finanziato dalla Comunità Europea per raccontare i 28 Paesi in vista delle prossime elezioni attraverso le parole di 30 giornalisti e di 8 fotografi, tra cui io. Si tratta di un progetto molto importante, la prima volta in Italia che si cerca di fare WebDoc in stile New York Times.
Dove sei stato?
Sono già stato in Lussemburgo e mercoledì è stato pubblicato un secondo reportage realizzato a Bruxelles per raccontare la rinascita del quartiere di Molenbeek, da cuore della Jihad a zona hipster (“Jihad e ritorno”, visibile sul sito del Corriere). Qui abbiamo incontrato le vittime dimenticate degli attentati: i parenti e i genitori dei foreign fighters. E abbiamo intervistato per la prima volta “l’avvocato degli jihadisti”, Mohamed Ozdemir.
GALLERY SFOGLIA
Progetti nel cassetto?
Questo è forse il periodo più bello della mia vita professionale, potrei andare dove voglio e mi piacerebbe tornare nel Caucaso ma, in questo momento, preferisco fermarmi. Devo realizzare ancora un servizio per il Corriere, ma non conosco la meta. E poi ci sono molte idee su questo progetto: una mostra, un libro, non si sa ancora. Quindi è meglio che resti in zona. Vedremo in autunno. Però non vedo l’ora di ripartire, perché viaggiare da soli per un tuo progetto è tutto un altro mondo.