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Erba, nella notte appaiono le statue di Rosa e Olindo a pochi passi dalla corte della strage

Le statue di Rosa e Olindo sono comparse nella notte a Erba in piazza del Mercato.

Si tratta di due sculture a grandezza naturale raffiguranti Olindo Romano e Rosa Bazzi, vicino alla corte di via Diaz dove si consumò la strage dell’11 dicembre 2006 per cui entrambi sono stati condannati all’ergastolo come gli autori.

Le due statue sono apparse sotto il portico, davanti a una videocamera rivestita in oro sotto nella celebre posa della performance con arco e freccia di Marina Abramovic e Ulay : “rest energy” . Si tratta della messa in scena ad Amsterdam nel 1980, con cui l’artista affida letteralmente la sua vita nelle mani del suo compagno Ulay. Una metafora dei rapporti, insomma, sia che si tratti di amicizia che di amore, in cui ci si pone davanti all’altra persona senza armature o protezioni, ci si trova esposti, messi completamente a nudo senza preoccuparsi delle conseguenze, correndo il rischio di rimanere trafitti (nel vero senso della parola).

I vestiti delle statue sono quelli con cui spesso Rosa e Olindo sono stati immortalati da tv e giornali nei giorni successivi alla strage. L’azione è stata rivendicata dall’artista lecchese Nicolò Tomaini sulle pagine social come un attacco alla “società dello spettacolo.” Il lavoro, inoltre, è accompagnato da un testo cartaceo firmato dal noto critico torinese Filippo Mollea Ceirano con il quale è stata tappezzata la città. “Quello che interessa – si legge – è come nella società contemporanea si possa costruire una verità artificiale e poi all’occorrenza si può anche decostruire con gli stessi identici strumenti, per rifarla ancora e disfarla tutte le volte che si vuole”. Di seguito, il testo integrale.

La strage di Erba tra realtà e rappresentazione

La strage di Erba tra realtà e rappresentazione

Ritornano sotto l’attenzione dei mass-media le vicende, giudiziarie e non, legate alla strage di Erba.
Presupponiamo noti i fatti, e chiariamo subito che non ci interessa affatto la diatriba su innocenza o colpevolezza, correttezza processuale, consistenza delle prove.

Quello che invece interessa è come nella società contemporanea si possa costruire una verità ufficiale, che poi all’occorrenza si può anche decostruire con gli stessi identici strumenti, per rifarla ancora e disfarla, tutte le volte che si vuole.

Il processo, la ricostruzione che in esso è emersa delle vicende, la cronaca giudiziaria e la narrazione mediatica dei fatti non sono altro che alcuni dei passaggi attraverso cui nella percezione sociale si compie l’inversione del rapporto tra la realtà delle cose e la sua rappresentazione.

Il falso prende il posto del vero, la copia quello dell’originale, mentre la vita, i sensi, le passioni, e più in generale tutto ciò che dovrebbe animare l’esistenza umana si azzerano, per lasciare il posto alla mortifera stretta di una rassegnata ubbidienza.

È chiaro infatti che una organizzazione sociale che prescinde dalla realtà non teme dissenso, resistenza, ribellione: in essa tutto è virtualmente consentito in modo che nulla possa essere concretamente realizzato, a partire dalla costruzione di una effettiva via di uscita dall’incubo di quella allucinazione perversa in cui siamo imprigionati a tempo indeterminato.

Il meccanismo è ben rodato, funziona ormai per automatismi che non necessitano neppure di una regia, di una attività di coordinamento; anzi, la sua forza sta proprio nel fatto che si è ormai compiuta e superata quella fase che G. Debord aveva chiamato “società dello spettacolo”, in cui «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso». Siamo giunti a un livello di mistificazione che non ha più neppure bisogno di ricorrere alla falsificazione per inglobare e neutralizzare la realtà: la rappresentazione precede il suo stesso oggetto, lo anticipa rendendolo, di conseguenza, del tutto superfluo.

Accadde, accade, accadrà; ovunque, per ogni cosa, oltre ogni cosa. Come a Erba.
L’innesco, l’evento iniziale, è grave, è tragico, è pesante: una strage, varie persone, tra cui un bimbo, brutalmente ammazzati. Ma presto si stempera, sfuma, si sgretola, mentre i generosi mezzi delle tecnologie della comunicazione secernono senza ritegno i loro escrementi mediatici. Dettagli che divengono notizie, sospetti o illazioni dati per certi, interpretazioni o ipotesi che un giorno rassicurano, quello dopo contraddicono, per poi scomparire, riapparire, porre domande di cui divengono risposte.

E poi due figure, Olindo e Rosa, tanto adatti al ruolo che sono destinati a ricoprire da sembrare inventati apposta per la bisogna, generati e non creati dalla stessa sostanza dei media.

E poi il processo che, nelle sue varie fasi, serve a focalizzare l’attenzione mediatica: quello che nell’idea di partenza era pensato come lo strumento con cui raccogliere e vagliare i singoli elementi frammentati, lo sviluppo progressivo di una serie di attività ed eventi, un processo, appunto, per giungere a una verità data dalla visione d’insieme, si trasforma in una sequenza di “notizie”, di “informazioni”, di suggestioni sensazionalistiche.
***
Nasce da queste considerazioni l’opera di Nicolò Tomaini, nella quale gli elementi si compongono, visivamente, attraverso la citazione di una storica opera di Marina Abramovic Rest energy, in cui i due soggetti di una coppia stanno uno di fronte all’atro; uno tiene in mano un arco, mentre l’altro tende verso il suo cuore una freccia pronta ad essere scoccata: il rapporto tra esseri umani, sia esso amoroso, affettivo, di amicizia, è sempre soggetto al rischio che l’equilibrio si rompa, con esiti potenzialmente letali, e deve potere contare su una assoluta, reciproca fiducia.

L’assoluto realismo, la veridicità della rappresentazione, in cui le figure umane che nell’opera originaria della Abramovic erano incarnate da persone reali in azione (la artista e il suo storico compagno) sono sostituite dalla riproduzione, curata fin nei minimi dettagli, di Olindo e Rosa, protagonisti indiscussi della vicenda (o meglio della sua narrazione), sottolinea l’azzeramento della separazione tra la realtà, la sua ricostruzione e l’invenzione fantastica; sottolinea che viviamo in un tempo in cui ciò che si percepisce come accadimento, come evento storico, non è diverso dalla simulazione, da una efficace messa in scena.
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Ma poi, mentre si stava terminando la realizzazione dell’opera sulla base di quanto avvenuto e sviluppato nell’evolversi dell’iter processuale e consolidato in via definitiva dalla sentenza di Cassazione passata in giudicato, d’improvviso si apprende che è opportuno ripensarci su. Sicché buchi evidenti, forzature clamorose consumate sotto gli occhi di tutti nel corso dei tre gradi di giudizio e disinvoltamente ignorate, di colpo ridivengono degne della massima attenzione sotto l’incalzare impietoso di una delle forme più triviali e degradanti degli aderenti al circo mediatico contemporaneo.

E così la giostra riparte. Quella che era una verità suggellata attraverso i tre gradi di processo viene disfatta e smembrata con quegli stessi mezzi che tanto avevano preso parte al suo consolidamento. E, normale esito nella società della “separazione compiuta”, si riparte dalla caotica girandola dell’enfatizzazione dei dettagli: la confessione (con le suggestioni e le forzature per ottenerla), i testimoni attendibili, quelli inattendibili, le tracce forensi, la loro assenza, in una caotico profluvio di particolari slegati e contraddittori. Restano, alla fine, le immagini statiche di Olindo e Rosa, tanto incredibili da dovere essere vere,

Torino, Lecco, Erba, 27 febbraio 2024.
Filippo Mollea Ceirano
N.T.

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6 Commenti

  1. E’ triste pensare che non vi è certezza nemmeno quando le persone confessano! Oggi va di moda insistere e indagare ancora dopo tre giudizi ! Penso ai famigliari delle vittime ed in particolare ai figli dei vicini di casa, morti senza alcun coinvolgimento personale, e che vedono il padre sempre più additato come “bugiardo”: inaccettabile ! E ai Carabinieri che con dovere e fermezza hanno portato avanti le indagini al meglio delle loro possibilità: inaccettabile sentirli criticati. Chi siamo noi tutti per parlare e giudicare ?

    1. non è che va di moda indagare, va di moda che ad ogni giudizio il giudice di turno ribalta completamente la sentenza precedente. e nessuno paga le conseguenze e i costi degli eventuali giudizi sbagliati. i giudici non pagano, mai.

  2. Vorrei sapere come costruire “una effettiva via di uscita dall’incubo di quella allucinazione perversa in cui siamo imprigionati a tempo indeterminato”.

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