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Stadio, così Vittorio Gregotti lo sognò a Lazzago. Dopo 50 anni riemerge dallo studio Cavalleri il grande piano

È nato prima il Sinigaglia o l’idea di sportarlo fuori città? La domanda sorge quasi spontanea a giudicare dalla frequenza con cui torna la proposta di realizzare altrove lo stadio destinando l’edificio costruito da Giovanni Greppi ad altri scopi.

Ultima in ordine di tempo la lettera indirizzata pochi giorni fa a due quotidiani locali da 11 bei nomi di Como (Nini Binda, Michele Canepa, Paolo De Santis, Mauro Frangi, Enrico Lironi, Moritz Mantero, Roberta Marzorati, Angelo Monti, Angelo Palma, Simona Roveda e Gerolamo Saibene) che invita a “riprovare a ragionare sul tema dello spostamento dello stadio per il calcio professionistico in un’area esterna alla convalle” sulla scia delle “Riflessioni urbanistiche sulla città di Como e il suo stadio” presentate dall’Ordine degli Architetti, a firma del presidente Michele Pierpaoli, che invitava alla medesima soluzione facendo esplicitamente il nome di “Lazzago – Villa Guardia”.

La “piana di Lazzago”, nome che già da solo è in grado di evocare lande desolate ai confini del mondo civilizzato dove rotolano covoni e ci si avventura solo se spinti da necessità improcrastinabili (cosa assolutamente non vera, sia chiaro, ma tanto appare agli occhi dell’osservatore meno attento di fronte alla grandiosa alternativa di uno stadio esattamente in mezzo al lungolago del lago-più-bello-del-mondo).

Ma chi si immagina un’astronave aliena a forma di stadio piazzata nel nulla, una cattedrale nel deserto in mezzo agli svincoli dell’autostrada non ha mai visto lui, il progetto dimenticato dello spostamento a Lazzago dello stadio che giace da più o meno 40 anni sotto qualche faldone ingiallito negli uffici di Palazzo Cernezzi.

Committente: Comune di Como (apperò). Esecutori: gli architetti comaschi Silvano Cavalleri, Enrico Mantero e Giorgio Medri e lo studio Gregotti. Quel Gregotti, Vittorio Gregotti, l’architetto milanese recentemente scomparso che a Como ha legato il suo nome a quello del Palababele di Cantù ma che, soprattutto, ha firmato alcuni tra gli stadi più famosi del mondo come il Ferraris di Genova, lo stadio di Nimes, gli stadi di Marrakech e Agadir ma anche la ristrutturazione del Marassi, sempre a Genova, e del Montjuic di Barcellona.

“Ho ritrovato una copia del progetto per puro caso, sistemando lo studio – racconta Elisabetta Cavalleri, noto architetto comasco con studio a Cernobbio e figlia di Silvano Cavalleri – non ne so molto, se non che risale all’incirca agli anni Settanta e che fu commissionato dal Comune di Como come una sorta di inquadramento urbanistico, poi mai realizzato. Quel che è certo è che, guardando le tavole, si tratta di un progetto decisamente visionario per l’epoca”.

Nessuna relazione che racconti l’idea, nessun ricordo a cui appigliarsi ma in effetti basta guardare quei fogli ingialliti per leggere un progetto che ancora oggi sarebbe moderno. Perché quando ancora i centri commerciali non circondavano la città e il palazzetto dello sport di Muggiò era ancora un giovincello, il dream-team di architetti già sognava una vera e propria cittadella capace di abbinare sport e molto altro.

E così ecco lo stadio per il calcio professionistico, sì, ma anche campi sportivi all’aperto, un palazzetto dello sport, un centro commerciale, un albergo, parcheggi di interscambio e aree verdi in grado di vivere 365 giorni l’anno. Forse troppo per quegli anni, ma per oggi?

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