Giovedì 31 ottobre padre Fabio Giudici, dell’ordine dei Camilliani, ha terminato, per limiti di età, il suo contratto di lavoro con Asst Lariana. Alle ore 16 nella cappella al Piano Blu, ha celebrato la messa e con l’occasione ha ringraziato, salutato e manifestato la sua gratitudine e riconoscenza a tutto il personale che lo ha accompagnato in questi anni. Di seguito i suoi saluti e ringraziamenti.
Carissimi operatori sanitari, prima di lasciare il Sant’Anna dopo più di dieci anni di servizio, vorrei salutarvi e ringraziarvi. Quest’anno ho già compiuto 67 anni di età e di per sé avrei potuto andare anche in pensione. Di fatto mio fratello gemello lo è da alcuni anni, ma non è così. Se in Italia come sapete mancano operatori sanitari, soprattutto medici e infermieri, nel nostro paese mancano ancora di più sacerdoti. Infatti, purtroppo è ormai consolidato da decenni una costante diminuzione di vocazioni sacerdotali per cui per noi preti non c’è una data anagrafica di pensionamento. Questa arriva solo per gravi motivi di salute e l’impossibilità di continuare l’attività ministeriale e pastorale. Per questa ragione mi è stata chiesta la disponibilità di continuare il mio ministero sacerdotale a Milano.
D’altro canto, quando sono stato ordinato sacerdote 40 anni fa, ho preso l’impegno di consacrare al Signore non una parte, ma tutta la mia vita al servizio del suo popolo. Vi sono infinitamente grato per la testimonianza che molti di voi mi hanno dato in tutti questi anni. Dal vostro esempio ho imparato tanto. Porterò nel mio cuore gli insegnamenti che mi avete dato. E per tutto questo vi ringrazio.
Se mi permettete, vorrei richiamare tre parole molto care al Papa Francesco. Tre parole che hanno a che vedere con la nostra missione, quella di accompagnare, sostenere, assistere, curare e prenderci cura degli ammalati che ci sono affidati. Senza togliere l’importanza che ha la professionalità e la competenza, credo che per noi che lavoriamo tutti i giorni a contatto con gli ammalati, tre cose siano importanti: la compassione, la vicinanza e la dolcezza.
Innanzitutto, la compassione. Dal latino con-patire significa soffrire con, condividere con i pazienti la loro stessa sofferenza, portare con loro il peso della malattia e del dolore, far loro capire che nella malattia non sono soli, ma noi siamo al loro fianco. Nei vangeli la compassione ha anche un significato ancora più profondo. Significa ridare vita là dove era andata perduta. E di per sé è una cosa questa che riescono a fare bene solo Dio e Gesù. Gesù ne parla chiaramente nella parabola del buon samaritano, il quale dopo aver sentito compassione per quell’uomo ferito e abbandonato sulla strada si prese cura di lui ridandogli vita e salute. Gesù ne parla anche nella parabola del figlio prodigo quando l’anziano padre lo vide da lontano ritornare alla casa paterna. Sentì compassione per lui, gli corse incontro e gli restituì la sua dignità di figlio, accogliendolo di nuovo a braccia aperte e facendo festa per lui. Ne parla infine nell’episodio della vedova di Naìn restituendo la vita a suo figlio che era morto.
Noi possiamo invece usare misericordia che non è poca cosa. La parola misericordia deriva dal latino “miseri-cordis” e significa dare il cuore ai miseri, ai poveri. E per noi i malati sono quelli che sono carenti di salute. In ebraico antico la parola misericordia ha la stessa radice della parola utero. E l’utero è il luogo dove è generata e cresce la vita. In questo senso non dimentichiamo che sentire compassione per gli ammalati che ci sono affidati significa, come Gesù, ridare loro se non sempre la salute sperata, in tutti i modi una vita più dignitosa e soprattutto speranza. Anche se siamo esseri umani, si tratta di un’azione divina, cioè la stessa cosa che farebbero Dio o Gesù se fossero al nostro posto.
Poi c’è la vicinanza. Gesù ne parla sempre nel racconto della parabola del buon samaritano. Sia il sacerdote, sia il levita come anche il samaritano vedono l’uomo ferito sulla strada, ma mentre i primi due lo vedono e passano oltre, solo il samaritano si avvicina all’uomo ferito. La vicinanza è l’inizio di una serie di azioni che lo porteranno a curare le ferite di questo uomo, a portarlo poi in una locanda, a prendersi cura di lui per ridargli la vita che rischiava di perdere se nessuno lo avesse soccorso.
Essere vicini ai pazienti che sono affidati alle nostre cure significa guardarli negli occhi quando gli parliamo, tenerli per mano anche se dobbiamo metterci i guanti, usare un linguaggio comprensibile e pieno di calore umano, fare in modo che percepiscano il nostro affetto. È questo il modo per far capire a loro che per noi sono importanti, che noi siamo interessati al loro benessere e che faremo tutto quello che sta alla nostra portata per aiutarli a star meglio e, per quanto è possibile, a recuperare la salute.
Infine, la dolcezza e la tenerezza che aiuta il paziente a sentirsi a casa, non tra estranei, ma tra amici e famigliari. Il modello che San Camillo ci propone è quello di un’amorevole madre che si prende cura del suo figliolo gravemente malato.
Compassione, vicinanza e dolcezza tre componenti che possono arricchire il nostro lavoro, renderlo più prezioso ed efficace e far contenti i nostri pazienti. Bene, vi prometto di ricordarvi nella mia preghiera quotidiana, anche voi non dimenticatevi di pregare per me. Un forte abbraccio in Cristo. Che il Signore vi benedica! Padre Fabio