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La prima Medusa di Caravaggio: un mistero che (è molto probabile) parla comasco

Ci sono leggende, storie e storielle. Stando a un vecchio pensiero: una venuzza pulsante verità la si trova anche nel più lontano dei miti.

E ci sono le menzogne e (o) splendidi racconti per sognatori, che però stanno lì dove devono.

Poi ci sono alcune storie ripetute negli anni, mai diverse, alle quali la fantasia del narratore – caso quasi unico – non aggiunge orpelli e pizzi d’abbellimento. Storie trasmesse, ripetute sempre nello stesso modo con particolari identici, scarnissimi però precisi.  Come se quel pozzo mezzo asciutto di verità (che talvolta c’è) costringesse a una sorta di rispetto per il racconto.

Ecco, è questo (forse) il caso. La storia è tanto breve quanto ammaliante.

Sentita tante volte, sempre la stessa (tra bar e verinissage noiosi) da bocche diverse e personaggi diversi, arrivati da orizzonti umani, personali e professionali tanto lontani da lasciar legittimamente immaginare che non tutte le fauci si fossero abbeverate alla stessa fonte.

Questa storia è uno di quei fallimenti (giornalistici) che si faticano a deglutire (ci mancherebbe, nulla di mostruoso: ma la mattina, alzandosi, si ha sempre quel dolorètto al fianco destro che la fa ricordare).

Tutti si ama l’arte (mh, sì?), pochi (pochissimi veri) son storici della medesima. E poi si tende al consumo: acquisti di magneti da frigo di Modì e Bacon, tovagliette da tavola di Haring (le magliette no perché le tripla X nei musei non si trovano). Dunque bisogna prenderla un filo alla lontana: partendo da fine ‘500.

I fatti dicono che nel 1597 Caravaggio ultimò lo “Scudo con testa di Medusa”: dimensioni 60×55, opera ben nota, custodita nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Era stata commissionata dal Cardinale del Monte per Ferdinando I de’ Medici. Il resto lo si trova su testi più accreditati di questo.

Poi arriva il secondo elemento: Caravaggio prima della Medusa da esposizione, come ogni artigiano che si rispetti, avrebbe lavorato al “numero zero”. Una prima Medusa, non una copia, ma uno studio.

Probanti – si legge in un’ampia analisi pubblicata da Firenzemuseistore – soprattutto tre elementi: una firma, il disegno sottostante la superficie pittorica, due poesie. Per quanto riguarda la firma: «Vi ha apposto il proprio nome nel sangue che stilla al di sopra del bordo decorato a viticci, in basso a destra, “Michel. A. f.”». Il secondo elemento, il disegno: il dipinto (…) eseguito su legno di fico (quello degli Uffizi è di pioppo): gli esami hanno rilevato un disegno steso in gran parte a carbone con tante cancellazioni e rifacimenti che dimostrano le difficoltà di sperimentare (…). Ultima prova, è un sonetto sulla «chioma avvelenata di Medusa» del poeta genovese Gaspare Murtola (…) pubblicato nel 1604. Il letterato era a Roma nel 1600 e in quell’anno avrebbe visto la «rotella», successivamente citata (senza indicare il soggetto) in un inventario del 1606. Siccome il poeta Giovan Battista Marino, nel 1601, dedicava una poesia alla Medusa medicea vista a Firenze, collocandola con precisione nell’armeria di Ferdinando I de’ Medici, Granduca di Toscana (come risultante da un documento di consegna del settembre 1598), si deduce che le teste del mostro raffigurate da Caravaggio erano due (…)”.

Il dipinto dicono, molti accreditati, faccia parte di una collezione privata italiana. Altri, stesso accreditamento culturale/artistico, confermano e aggiungono: si troverebbe custodito in un caveau di Londra (in effetti la prima versione sarebbe finita subito nel centro di Albione, dopo esser stata conclusa).

Fine della storia principale, non fosse che la proprietà italiana, nel dettaglio, dovrebbe essere comasca. La storia secondaria di cui parliamo è davvero breve: un professionista lariano possiede la prima Medusa, la custodisce a Londra e non ha nessuna intenzione di parlarne. Comunque: se noi mortali ne abbiamo colto qualche eco, evidentemente qualcuno ha parlato.

Ecco, allora piace immaginare che sempre quel qualcuno ne sappia di più, si immagina anche che qualcuno possa correggere, precisare o – peccato! – smentire questa storia. Immaginiamo che qualcuno, fosse tutto vero, magari possa parlare con questo proprietario. E ipotizziamo ancora che, pure in tempi di vacche assai magre per le esposizioni in città, sognare, solo sognare, una mostra a quadro unico non sia una follia, anzi. Un evento celebrativo assoluto, pura linfa per la cultura e il turismo.

Così in un istante di vanagloria lanciamo un appello al proprietario, solleticandone un po’ l’ego, pronunciando le paroline magiche: il mecenatismo rende immortali.

Che poi è facile: è più filantropia che mecenatismo. Non si tratta di finanziare un artista e i suoi capricci. Si tratta solo di esporlo.
Sia pure si parli di una vacca sacrissima come Caravaggio.

Segnalazioni a: redazionecomozero@gmail.com

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