Al grande pubblico, forse, la cosa risulterà tutto sommato indifferente. Eppure, si è a un passo dal fare (o archiviare, dipende dai punto di vista) una pagina di storia del territorio, della sua economia, del suo potere politico-istituzionale. Perché due giorni fa, in una saletta nemmeno troppo nobile di Palazzo Cernezzi, è caduto davvero l’ultimo tabù: Villa Erba può diventare privata. A maggioranza privata, per essere tecnicamente precisi. Si può decretare, insomma, la fine, dopo miliardi di lire e milioni di euro volati via in 30 anni circa dalle finestre degli enti pubblici proprietari, di quel sogno/delirio politico-imprenditoriale di metà anni ’80 di puntare su una immensa e costosissima struttura fissa per le grandi fiere tessili quando le grandi fiere tessili stavano già agonizzando.
A squarciare questo nuovo orizzonte è stato l’assessore al Bilancio e alle Società Partecipate del Comune di Como, Adriano Caldara (Lega). Il quale, nella quiete di una Commissione di mezza sera, incalzato anche dalle domande del consigliere Alessandro Rapinese, si è espresso testualmente così: “Per quanto riguarda Villa Erba, discuteremo in consiglio dell’eventuale cessione di parte delle nostre azioni. Si tratta di un passo molto importante e delicato, che ruota attorno a una questione: vogliamo continuare a far parte di una società a maggioranza pubblica che però continua a conseguire forti passivi di bilancio, oppure rinunciare alla maggioranza cedendo quote ai privati ma in un soggetto con una maggiore redditività?”. Domanda più che legittima, anche se come i privati sarebbero in grado di raggiungere finalmente la maggiore redditività è ancora ignoto.
Caldara ha poi aggiunto che “nel caso servirà una modifica dello statuto che preveda la partecipazione minoritaria dei soci pubblici”.
In estrema sintesi: oggi il polo fieristico – di proprietà pubblica – è in maggioranza in mani pubbliche, che ne esprimono il presidente (oggi Filippo Arcioni, uomo legatissimo all’ex presidente della Camera di Commercio, Paolo De Santis, e già amministratore delegato di Sviluppo Como, ComoNext e della Como Venture presieduta da Maurizio Traglio; gli altri consiglieri del cda sono Fulvio Alvisi, Fabio Massimo Storer, Marta Anzani e Bianca Passera). La Camera di Commercio di Como ha 25,187%, la Provincia di Como il 16,788%, il Comune di Como il 7,312 e il Comune di Cernobbio 3,912% (dunque il 53,199% totale). Basterebbe una minima cessione di quote ai privati (che sono Fondazione Fiera Milano 21,244%, Confindustria Como 13,072%, Intesa SanPaolo 4,878%, Como Imprenditori Alberghieri 4,410%, Ascontex Promozioni Srl 1,637%, JM Droulers 1,559%) per dischiudere uno scenario completamente nuovo.
Sarà quasi certamente il consiglio comunale di Como a fare da apripista e ad alzare o abbassare il pollice su questa nuova, possibile era del polo cernobbiese. Con la prospettiva di archiviare per sempre due cose non trascurabili: la guida degli enti pubblici in una società che nel 2014 ha segnato un passivo di bilancio di 384mila euro, nel 2015 di 665mila e nel 2016 di 297mila (in una storia complessiva fatta comunque sempre di enormi buchi e di debiti allungati giusto due anni fa fino al 2025); e si mettere fine alla vita di un ibrido nato morente già 30 anni fa e che al netto di eventi di prestigio mondiale ospitanti di tanto in tanto è stata troppo spesso ridotta a buffet da matrimonio pur di mettere in cassa qualcosa. Sempre troppo poco, comunque.