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La fuga dei politici dopo anni di sfilate a 72 denti: il vero affronto a Como, molto peggio dei parapetti

C’è qualcosa di molto peggiore rispetto ai pur tremendi parapetti che ieri, fortunatamente solo per un paio d’ore, hanno imbarazzato il lungolago di Como. E quella cosa è la fuga dei politici davanti alla loro responsabilità, davanti all’assunzione di paternità delle loro scelte, davanti al coraggio di parlare a viso aperto di fronte a cronisti e media convocati apposta nella zona di Sant’Agostino per togliere i veli a quelle ringhiere.

Lo avrete letto nelle cronache nostre (qui e qui) e non solo nostre e, se non lo aveste ancora fatto, lo potete comodamente desumere anche soltanto dalle immagini che circolano ovunque da 24 ore. Non esistono interviste dirette o foto ‘posate’, realizzate sul posto e sul momento, ai protagonisti della giornata di ieri, in particolare all’assessore regionale Massimo Sertori e al sindaco di Como Alessandro Rapinese. Si sono letteralmente sottratti a qualsiasi forma di domanda o di intervista, sono sostanzialmente fuggiti dopo aver passato qualche minuto in una sorta di ‘recinto privé’ vietato a giornalisti e telecamere. E – cosa che sarebbe di una gravità inaudita – forse dopo aver scoperto soltanto in quel momento quale fosse il modello di parapetto messo in mostra per 120 minuti sul lungolago più famoso del mondo. Ma c’è di più.

Non soltanto i politici che hanno gestito questa infelice operazione sono scappati al momento di rendere conto, ma hanno letteralmente mandato allo sbaraglio i tecnici, usati come paravento umano per coprire la loro corsa lontano dal lungolago. In particolare è toccato al Rup del cantiere paratie, Alessandro Caloisi (tecnico peraltro di enorme valore e al quale si deve in gran parte la conduzione dell’opera complessiva fuori dal disastro che ancora aleggiava pochi anni fa), dover fare da agnello sacrificale davanti ai taccuini, mentre assessori, sindaci e comprimari della politica, che forse speravano nell’ennesima “trionfale” passerella a buon mercato davanti al Lago di Como, se la davano a gambe.

Ecco, questo atteggiamento, così diverso dalle foto a 72 denti della trentina di ‘inaugurazioni’ che la città ha dovuto subire in questi 17 anni sul lungolago, è stato largamente la cosa peggiore di tutto. Anche dei manufatti in sé, che pure hanno ricevuto la più solenne bocciatura unanime che si ricordi da molti anni a questa parte in città (ma anche qui, i casi sono due: o la politica sapeva cosa sarebbe stato presento e allora la fuga di ieri risulta ancora più inaccettabile; oppure nemmeno si era occupata di dare uno sguardo preventivo a ciò che è stato portato sul lungolago di Como come si trattasse di cambiare una lampadina nella cantina di casa, e allora saremmo al cospetto di un autentico affronto a Como, ai suoi cittadini e alla sua storia).

Insomma, le responsabilità di ciò che si è visto ieri non possono certo ricadere né sui tecnici – che per natura eseguono, dietro indirizzi degli amministratori – né su chi ha materialmente realizzato le opere, che avrà semplicemente dato forma a una propria legittima idea secondo criteri che immaginiamo in astratto validi.

Il disastro pratico, politico e comunicativo della giornata di ieri ricade tutto su chi si è sottratto a ogni confronto, spegnendo telefoni e sparendo all’improvviso senza dire una sola parola, peraltro dopo aver usato infinite volte quel lungolago come luogo da parata per liberare euforiche e incontrollabile logorree nell’automagnificarsi. Nel momento dell’imbarazzo, ecco i leoni della politica rifiutarsi di dire una sola parola, di fornire una spiegazione, di rispondere ai dubbi di media e cittadinanza preferendo volatilizzarsi come per una malriuscita magia. Questo – più ancora delle ringhiere – rimarrà il vero affronto dell’ennesima, indelebile giornata nera del lungolago di Como.

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