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Pellio Intelvi, l’estate felice dei bambini ucraini e l’ombra della guerra: “Guardavano il cielo preoccupati ad ogni aereo”

Fine estate, tempo di tornare al lavoro e a scuola e tempo di rispondere alla classica domanda settembrina: “E tu, cos’hai fatto quest’estate?”. E la risposta di Giovanni Ambrosi, del suo amico Luca Chiesa e dei ragazzi che hanno dato loro una mano potrebbe essere, meravigliosa nella sua semplicità, “Ho fatto felici dei bambini ucraini”. Perché Giovanni, albatese già da anni impegnato con la sua famiglia ad ospitare durante l’estate bambini provenienti da Paesi in difficoltà come quelli provenienti dalla zona di Chernobyl, quest’anno, per la seconda volta, ha organizzato un camp estivo per ragazzini provenienti dall’Ucraina o da campi profughi romeni per regalare loro due settimane di bellezza e serenità.

Da anni con l’Associazione Bambini di Chernobyl – Basso Lario Occidentale sono attivo nell’accoglienza di bambini bielorussi e ho anche portato personalmente aiuti umanitari ai profughi ucraini con l’appoggio della parrocchia di don Giusto a Rebbio e, proprio durante uno di questi viaggi, ho conosciuto l’associazione rumena People to People e grazie a loro ho avuto modo di visitare alcuni campi profughi in Romania – racconta Giovanni – così l’anno scorso mi è venuta l’idea di organizzare un camp estivo in cui ospitare alcuni di questi ragazzini per regalare loro un paio di settimane lontani dalle difficoltà che devono affrontare ogni giorno. E quest’anno abbiamo organizzato la seconda edizione grazie alla disponibilità della parrocchia di San Giorgio a Pellio Intelvi che ci ha nuovamente aperto le porte”.

Un mese, due turni da dodici giorni ciascuno, una cinquantina tra bambini e ragazzi accompagnati, in qualche caso, dalle mamme e una decina di volontari, alcuni davvero giovanissimi, a dare una mano e tantissima natura, passeggiate, notti in tenda sotto le stelle, giochi e bellezza: questa è stata, ma davvero, la ricetta della felicità di questo straordinario camp.

E per chi si domandasse a cosa serve far vivere due settimane così a questi bambini per poi riportarli tra le terribili difficoltà in cui sono costretti a vivere, la risposta di Giovanni è molto semplice: “Vogliamo fargli vedere che esiste anche tanta bellezza nel mondo e che si può vivere diversamente da come pensano, più liberi molti di loro quando sono arrivati erano diffidenti, difficili da coinvolgere e persino le mamme non capivano il senso di quello che gli proponevamo perché molti di loro non hanno mai neanche sperimentato l’idea di una passeggiata o di fare sport per il puro piacere di farlo – racconta, infatti – però quando sono ripartiti erano diversi perché avevano scoperto che si può lottare per vivere in un altro modo”.

La cosa più difficile è stata proprio riuscire a coinvolgere questi bambini perché molti di loro non erano mai usciti dalla loro città, erano molto chiusi e non volevano fare quasi niente di quello che proponevamo, senza dimenticare le difficoltà linguistiche che siamo riusciti a superare solo grazie a un paio di ragazzini che riuscivano a tradurre quello che dicevamo – racconta Chiara Testa, 17 anni, alla seconda esperienza come volontaria in questo camp – alla fine, però, c’era il ragazzino sempre con lo sguardo triste che non voleva mai partecipare a niente che saltava di gioia dopo aver raggiunto una vetta o la mamma con un bambino disabile che lo faceva portare da Giovanni nello zaino per non fargli perdere nessuna gita. E con molti di loro sono rimasta in contatto e già chiedono di poter tornare l’anno prossimo”.

Ricordo dei bambini che fissavano il cielo con occhi preoccupati ogni volta che passava un aereo, tanto era vivo il ricordo della paura dei bombardamenti – aggiunge Gea Corti, che a soli 13 anni ha deciso di dedicare parte delle sue vacanze a questo progetto – ma, nonostante la fatica e la grande responsabilità, pensavamo che fosse davvero importante far vedere loro le cose belle della vita e ce l’abbiamo messa tutta per riuscirci. E il desiderio di tanti di poter tornare l’anno prossimo, compresi molti genitori, ci fa pensare di esserci riusciti”.

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