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L’architetto Fasola: “Il centro di Como colmo ma impoverito di significato. Ed eliminare le auto non risolve i problemi”

Mentre il sindaco di Como, Alessandro Rapinese, entra “in modalità pop-corn” come ha detto il giorno della presentazione alla stampa, il progetto Ticosa continua a essere al centro del dibattito (lo trovate qui). Le intenzioni dell’amministrazione sono chiare: realizzazione da parte di Acinque di un energy-park con parcheggi e fotovoltaico. Per due terzi paga il pubblico, 17 milioni, per il resto il privato, 10 milioni (ne parlavamo qui). Sulla questione pubblichiamo con molto piacere l’intervento dell’architetto comasco Roberta Fasola che offre un’analisi completa sull’identità urbanistica e sociale della città e quindi un pensiero identitario. Eccolo di seguito [per inviare interventi, opinioni, segnalazioni, foto e video scrivere a redazionecomozero@gmail.com o al whatsapp di redazione 335.8366795].

Ritengo che il tema della sosta sia un concetto estremamente delicato da affrontare, in quanto coinvolge necessariamente tutta una serie di tematiche (tipologiche, sociali, economiche, ecc): non può ridursi alla mera soluzione (ritenuta imprescindibile da alcuni) di, semplicemente, “togliere le auto dalla città”. Di più: prima di agire in tal senso, è necessario capire dove e come dare loro nuova collocazione. Viviamo nell’era delle auto, non dovremmo rinnegarle ma trovare il modo migliore per conviverci.

Il centro storico di Como ha una struttura urbanistica che si rifà al cardo ed al decumano romani, e appare completamente edificato, con poche aree/piazze libere (e che tali mi auspico rimangano), identificabili come ”spazi aperti” dedicati alla convivialità: il significato del loro “vuoto”, però, non può essere semplicemente saturato dalla presenza dei tavolini dei bar e un loro ripensamento sarebbe necessario per donare un nuovo valore aggiunto (in supporto all’originario).

Un primo passo in questo senso è stato fatto eliminando le auto. Ma mantenere la storicità eliminando in toto le auto e quindi la facilità di accesso, ha comportato una serie di problematiche, che si sono accentuate soprattutto durante il fenomeno covid19 (dove la auto sono state, seppur temporaneamente, del tutto “eliminate”): questo ha generato svariati fenomeni. Alcuni interessanti, dando nuove visuali prospettiche legati a una differente percezione temporale, (da punti prima accessibili solo alle auto in movimento) della città e dei suoi pieni e vuoti architettonici. Altri preoccupanti, facendo sì che gli spazi da sempre considerati di aggregazione (vie, piazze, giardini, ecc) siano diventati sempre più dominio di sbandati, bande di giovani teppisti e poveri (questi ultimi vittime inconsapevoli di una situazione che non vede fermare il proprio processo degenerativo).

Cammino sempre meno volentieri all’interno della mia città, dove questi nuovi gruppi collettivi si stanno diffondendo a macchia d’olio: non lasciamo che il “nostro” centro storico dia un nuovo concetto semantico a quello tradizionalmente conosciuto di “non luogo” (ufficialmente introdotto nel 1992 dall’antropologo francese Marc Augé nel saggio Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité).

Solitamente ricondotto ai concetti più ampi di aeroporti, centri commerciali, ecc., il non luogo potrebbe intendersi come l’esatto contrario del termine dimora, di quel luogo cioè, al quale da sempre viene riconosciuto un valore tipologico e sociale. Il non luogo è uno spazio fisico connotato da anonimato e solitudine, per quanto frequentato da un numero elevato di persone, dove si svolgono funzioni e azioni prive di reali contatti umani e relazioni sociali (almeno per chi li frequenta; diversamente potrebbe essere per chi vi lavora). Inevitabile che qui, il mio pensiero ritorni al centro storico comasco.

Per consentire il recupero sociale della nostra città credo sia necessario risolvere il tema della sicurezza e della riappropriazione di questi spazi, dei Suoi spazi. Eliminare le auto dalla città significherebbe (sempre a mio modesto parere) de-incentivare il commercio e tutte quelle attività che sono a servizio del cittadino di tipo locale (se così si può definire), quali negozi, musei e teatri, spazi espositivi luoghi di culto e ristoranti, ecc, a favore di un turismo oramai imperante ed incontrollato: il centro storico è colmo di B&B che, necessariamente, comportano uno spopolamento del residente fisso, una conseguente noncuranza della sicurezza e dei servizi offerti (perlomeno nella maggior parte dei casi), nonché un aumento incontrollato dei prezzi. La nostra città è colma ma, al contempo, impoverita del suo significato originario.

Seguendo questi ragionamenti mi sono poi domandata: cosa possiamo fare per aiutarla? E cosa lega tutti questi elementi tra loro (case, piazze, luoghi del lavoro, luoghi sociali, ecc)? La risposta, più concretamente tangibile che mi sono data è stata: i percorsi, (pedonali e non). Le strade, le vie, rappresentano il vuoto che collega tra loro tutti questi volumi definiti, e con loro, inevitabilmente, si introduce il delicato tema del sistema della sosta.

Le teorie più diffuse (o sarebbe più corretto definirle eco-green?) vedono sostenere la necessità di eliminare le auto dalla città e di rinforzare la rete di collegamento pubblica urbana ed extraurbana. Tuttavia credo che progredire significhi essere consapevoli del tempo presente: le macchine esistono e alcune volte (purtroppo) non se ne può fare a meno.
Quindi, rischiando di andare in parte contro alla versione più comune, mi chiedo: perchè non fare della necessità del loro stoccaggio un punto di forza?

Non ritengo particolarmente risolutiva la sola soluzione di limitare l’accesso alla città offrendo solo parcheggi esterni: si andrebbe a creare un maggiore divario tra centro e periferie, le persone avrebbero maggiore difficoltà a raggiungere le città, e questo significherebbe rallentare l’afflusso a i luoghi della socialità, frenando ancora di più una già difficile ripresa economica. Parcheggiare alla “Ticosa”, ad esempio, o in altre aree periferiche (tipo la zona stadio o all’autosilo Val Mulini) incentivando l’arrivo in città pedonalmente o tramite navette, non può essere l’unica soluzione: ho amiche che lavorano o abitano in centro e alla sera, se hanno l’auto parcheggiata lontano hanno paura a raggiungerla.
Il tema del parcheggio rimane strettamente legato a quello della sicurezza, purtroppo.

Allora mi domando: perché non trovare una nuova “casa delle auto” (se la parola autosilo spaventa, si potrebbe chiamarlo così) che sia in grado di dare una ri-appropriazione a spazi e/o elementi esistenti? Occorre un ripensamento generale del sistema dei parcheggi, non semplicemente portandoli all’esterno e collegandoli ai centri con navette, ma dando loro una nuova dignità progettuale che sia in grado di offrire un prodotto visivamente dotato di un disegno urbano, connotato da un fondato e ritrovato valore tipologico.

Come architetto ritengo che il tema del ricovero delle auto sia un tema estremamente affascinante (assieme a quello dei cimiteri, che ripropone il tema dello stallo con un ancor più delicato concetto di riposo e collocazione). Il concetto di autosilo si potrebbe valutare in una sua duplice accezione: la sua inclusione nelle immediate vicinanze del centro storico (con particolare riferimento al perimetro esterno alle mura) ad uso degli avventori occasionali. Una possibile variante interna alla città, ad uso esclusivo del residente fisso, al fine di incentivarne il ritorno (anche se ora viviamo una “fase full” degli edifici del centro, grazie al proliferare dei B&B…). Potrebbero però, entrambe, divenire occasioni per l’economia della nostra città, se supportate anche da un’attenta gestione del tema delle tariffe. E potrebbero aiutare a liberare le strade da una quota significativa di auto, a vantaggio di percorsi pedonali e ciclabili (con un possibile conseguente adeguamento dei marciapiedi, degli spazi verdi, delle sedute pubbliche, di un progetto della luce, ecc), rivalutando così l’intero patrimonio architettonico e culturale di Como.

Alcuni tentativi in questo senso, per fortuna, sono già stati fatti: la recente realizzazione dell’autosilo del Valduce è un esempio di un’architettura ben riuscita ed integrata, rispettosa sia delle necessità più pratiche che del contesto storico e geografico del sito. Il progetto dell’autosilo che si dovrebbe trovare nelle immediate vicinanze del Collegio Gallio, a cura degli arch.Stefano Seneca e arch.Marco Castiglioni, promosso dalla proprietà dell’area, Opera Pia Collegio Gallio, è invece purtroppo tramontato. Il concorso (seppur esterno alla città) di idee per la realizzazione di una nuova struttura di accesso al centro storico di Brienno ad uso autorimessa pluripiano che, nel 2004, ha visto vincitori gli architetti Luca Baletreri, Franco Tagliabue, Stefania Saracino e Marco Mapelli, anche questo, purtroppo, mai realizzato.

Perchè non proseguire su questa strada?
Vi sono innumerevoli esempi nel mondo di parcheggi la cui progettazione ha seguito questa strada, abbracciando i temi progettuali tra loro più disparati (esempio il Millenium Point, vincitore nel 2012 del British Parking Awards, quello dal design cilindrico, costruito nel 1944-45, all’interno del parco dei Célestins, che ospita il Teatro di Lione, quello di Sheffield denominato la Grattugia, o il Cordova Parkade a Vancouver, Canada: progettato come parte della rigenerazione del centro di Vancouver, che omaggia il tessuto storico della città con una facciata in granito e acciaio, assieme a tanti altri…).

Una ritrovata consapevolezza progettuale, dunque, a ricordarci che il nostro impegno deve essere capace di relazionare il momento della riflessione teorica con l’uso, la ricerca scientifica con l’innovazione tecnologica; e questo non solo nel creare nuovi oggetti, ma anche nel dare rinnovato senso a quelli esistenti, nel tentativo di diminuire o, perlomeno non aumentare, il grado di saturazione degli spazi che viviamo. Da una parte siamo chiamati a conservare e tutelare i beni naturali e socio-culturali che fanno parte del nostro patrimonio di civiltà, dall’altra siamo invitati ad un processo di trasformazione controllata dell’ambiente e di gestione delle risorse, riducendone il consumo, riflettendo sull’accorciamento del ciclo di vita degli oggetti che generano velocemente nuovi rifiuti (in questo caso le auto), evitando che le discariche prendano il sopravvento e diventino monito, anche del fallimento del progetto; per capire se, in un’era di tecnologia estetizzante come la nostra, l’obsolescenza formale sia inutilmente più veloce di quella funzionale.

Il pianeta è saturo di oggetti, spesso carenti di qualità. Lavorando con la consapevolezza che dove non è più possibile riciclare, a volte, è necessario demolire, per fare spazio al nuovo (alcuni errori del passato non possono essere coperti (diverrebbero solo “errori migliori” e, comunque, resterebbero tali). Sono necessari rapidi ripensamenti strutturali, anche dei modi di progettare, per non sovraccaricare ulteriormente il mondo, per cercare di convertire i tanti oggetti presenti in qualcosa di meglio, in qualcosa di utile, se necessario smontandoli, per dare ai loro componenti ed ai loro materiali nuovo utilizzo; un Ri.Ciclo, dunque che li reinterpreti, trasformandoli sia a livello funzionale che più propriamente materico. Una sorta di ready made contemporaneo.

La nostra responsabilità per l’ambiente in cui viviamo è grande: gli oggetti sono inseriti in un contenitore ambientale che chiede rispetto per poter vivere, convivere e sopravvivere.

Era il 1987 quando Tomas Maldonado scriveva ne ‘Il futuro della modernità’:
[…“Fare il nostro ambiente e fare noi stessi è stato filogeneticamente ed ontogeneticamente un unico processo…il modo in cui la coscienza si appropria della realtà ambientale influisce decisamente sulla conformazione ultima di questa realtà…I nostri rapporti con l’ambiente sono di reciproca corrispondenza: la condizione dell’uomo e del suo intorno sono il risultato di uno stesso processo dialettico, di uno stesso processo di mutuo condizionamento e formazione…Ma se il lavoro è, da un lato, un fattore di autorealizzazione, dall’altro è un fattore di alienazione. E’ ovvio ormai che il particolare modo con cui la coscienza si appropria della realtà ambientale influisce decisamente sulla conformazione ultima di questa realtà”].

Chissà quante cose avrebbe avuto da dire in proposito, se fosse ancora tra noi.

Roberta Fasola

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11 Commenti

  1. Tutte considerazioni valide ma l’ innovazione è frutto dell’ evoluzione sociale …… pertanto le criticità sociali porteranno sempre a soluzioni non soddisfacenti. 🤔

  2. Non c’è dubbio che il problema traffico e parcheggi di questa città non si risolve con la bacchetta magica, ed in parte l’architetto ha ragione nel dire che non bisogna sempre e comunque negativizzare l’uso delle auto.
    Un esempio però…chi vive vicino alla “Napoleona” o le altre vie a grande scorrimento di questa città bellissima, (ma ahimè tossica), cosa ne pensa dell’idea di continuare a fare entrare sempre più auto in centro?
    Magari pensare a barriere antirumore e simili no?

  3. Il centro perde l’anima perché gli abitanti, gli unici che hanno a cuore la questione, se ne vanno, spinti fuori da prezzi esagerati, dalla mancanza di abitazioni e dai servizi sempre peggiori. Quando sarà completata la trasformazione in villaggio vacanze, con solo ristoranti che fanno la Vera Pizza Napoletana docgqp come la si mangia solo a Dubai o Tokyo, il problema dell’anima non si porrà più.

    1. Esattamente, il problema è tutto qua. Come abitare in città quando in centro un monolocale di 20-30 mq sta a 1000€ al mese in affitto?

      E la tendenza si sta sviluppando anche nella cintura e nelle periferie, da Lipomo a Montano Lucino.

      Cominciamo a limitare gli airbnb, cominciamo ad avere un programma in centro che non sia solo turismo di massa e locali tutti uguali, spesso espressione di catene. Sarebbe già qualcosa, ma temo che non ci sia proprio la volontà politica di farlo. Rapinese poteva fare qualcosa, ma si è adeguato al trend. Peccato, perché su altre cose ha dimostrato di voler scardinare alcune logiche incancrenite.

  4. Sono d’ accordo : la città ha perso la sua anima. Il problema è serio e di non facile soluzione. Mi piacerebbe ci fosse un dibattito in presenza anche perché penso che sia importante che quando si condividono opinioni e preoccupazioni ci si guardi in faccia

  5. I problemi si risolvono fattivamente! Sfoggio culturale, xaltro discutibile espressione di immensa mania di protagonismo e di allineamento, non è in grado di risolvere 1 bel niente! Tanti auguri di cuore xchè ce n’è bisogno! Gianni

  6. Il paese delle parole…. tante… anche belle …. ma proposte concrete, una visione della città per il futuro più o meno immediato, idee realizzabili per il benessere di tutti, dalle periferie al centro cittadino… non se ne vedono. Cosa vogliamo fare di questa città? Ci limitiamo a seguire l’onda più o meno lunga del turismo? E i suoi abitanti?

  7. Articolo lungo, ma sostanza condivisibile: la città perde l’anima.
    Per evitare ciò e ridarle vita ci vorrebbe una visione lunga e decisioni coraggiose.
    Le ultime giunte comunali non ne erano all’altezza, questa men che meno.
    Peccato.

  8. Belle parole ma vorrei capire dove metterebbe l’autosilo, magari in piazza Perretta, sotto la quale è probabile ci siano reperti romani??? Per me l’ideale è vicino alla stazione S.Giovanni, in viale Innocenzo, dove c’è un laghetto in un terreno di privati! 300 metri più avanti dovrebbe arrivare il parcheggio biplano vicino alla polizia municipale. Poi bici per tutti e bus e taxi elettrici in attesa della metro leggera da Como Lago a Grandate! Spero prima di 30 anni….

  9. Ho vissuto in città grandi e grandissime, dove tutti prendono i mezzi pubblici. Se qui fossero efficienti forse, nonostante l’amore viscerale degli italiani per l’auto, qualcuno in più si convertirebbe al trasporto pubblico
    Ma per attirare passeggeri deve avere : mezzi nuovi, puliti, frequenti, puntuali, comodi per tutti, anziani e bimbi. Volutamente non voglio parlare della tariffe.
    I bus di Como sono tutto il contrario, oltretutto non ce ne sono due uguali, alcuni hanno gradini ridicoli (curvi ed altissimi), altri, sedili scivolosi dai quali alla prima curva si rischia di volare via.
    Il grande vantaggio dei mezzi pubblici è che consente di spostarsi raggiungendo tanti posti in una mattinata, per esempio, mentre l’auto obbliga a tornare dove era posteggiata, ma, mi ripeto, non si attirano nuovi passeggeri con un’offerta che non si vede migliorata.

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