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Un sogno perduto, la Como che non sa osare: intervista splendida e amara a Pierluigi Ratti

FOTOGRAFIE DI CARLO POZZONI

C’era una volta un uomo che, per festeggiare due date importanti nella sua vita, voleva regalare alla sua città qualcosa di grandioso valorizzandone il patrimonio più prezioso.

Quell’uomo era il cavalier Antonio Ratti, una figura che non ha bisogno di presentazioni, e il progetto era quello di un modernissimo museo dedicato a due dei più importanti nomi della cultura comasca: Giuseppe Terragni e Antonio Sant’Elia.

Un sogno, appena abbozzato e cestinato senza troppe discussioni dall’Amministrazione di allora, tornato alla memoria di Pierluigi Ratti, architetto paesaggista e anima di Rattiflora, proprio in questi giorni, leggendo quanto abbiamo scritto su ComoZero cartaceo, circa la a necessità che Como torni a sognare “in grande”.

Como, Pierluigi Ratti in posa davanti al suo ulivo di via Borgovico (foto Carlo Pozzoni)

 

“Era la fine degli anni Novanta, Antonio Ratti compiva 80 anni e si festeggiavano anche i 50 anni delle seterie Ratti – ricorda – il suo desiderio era quello di fare un regalo alla città: un museo modernissimo all’interno di Porta Torre da dedicare alle opere di Terragni e Sant’Elia”.

Un’idea avveniristica che non avrebbe intaccato il monumento ma avrebbe consentito di valorizzarne i vuoti e l’altezza: “Il progetto prevedeva la realizzazione di una struttura autoportante all’interno della torre che non avrebbe toccato le murature e che non sarebbe stata visibile dall’esterno – spiega – il Cavalier Ratti era ovviamente disponibile a sostenere tutte le spese di realizzazione e io mi ero offerto di parlarne con l’allora Sindaco Alberto Botta e con l’assessore alla Cultura Paolo De Santis. Ma l’unica risposta che avevo ricevuto era stata che la Soprintendenza non l’avrebbe mai permesso. Non so neppure se fosse stata consultata visto che non esisteva ancora un vero e proprio progetto”.

E così quell’idea è andato a fare compagnia a mille altre proposte che, invece di diventare occasioni per fare qualcosa di innovativo o anche solo per stimolare dibattiti, vengono zittite dal “tanto non è fattibile”.

Ma perché raccontarla oggi? Non tanto per promuovere un “facciamolo” che non spetta a noi giudicare nella sua reale fattibilità (al netto della perdita, ahinoi, del suo promotore) ma per rilanciare ancora una volta l’idea che occorra osare un po’ di più nei progetti concreti ma anche solo nelle proposte che possono offrire spunti a cui non si era pensato.

Como Pierluigi Ratti in posa davanti al suo ulivo di via Borgovico (foto Carlo Pozzoni)

 

“Como ha bisogno di qualcosa di importante, ma da troppo tempo è soltanto amministrazione e non visione – conclude Pierluigi Ratti – non per niente gli ultimi esempi di architettura di valore internazionale sono le opere di Terragni. Dopo di lui il nulla. Eppure le idee, le possibilità e le competenze ci sarebbero, basta sfruttarle: io stesso mi sono detto più volte disponibile, e lo sono ancora, a mettermi a disposizione della per discutere gli interventi sul verde ma non sono mai stato consultato”.

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3 Commenti

  1. Ma se a Como abbiamo uno spazio splendido come San Pietro in Atrio.. Che mediamente in una mostra di 3 settimane fa dai 7.000 ai 9.000 ingressi…. Dove i turisti entrano anche solo per poter fotografare lo spazio…. Ma il Comune cosa fa? Il Comune… È troppo avanti…. Addirittura mesi prima del Covid… Che fa? Lo chiude… Sai come è… Metti che si diffonda il virus della Cultura… Chiudiamo che è meglio… È un po che Como ho dato un taglio “chirurgico” Alla Cultura… Speriamo nel futuro…
    Saluti
    Fabrizio

  2. Buongiorno,
    Ricordo con interesse quella proposta di Alberto e Paolo, e ricordo come il Cavalier Pierluigi Ratti la riprese. Se L’ idea suggestiva di Porta Torre ha difficoltà storiche/architettoniche per egida di tutela del Patrimonio artistico, non è che a Como non abbiamo spazi. Lo stesso vale per L’ Archivio STORICO degli ARCHITETTI MANTERO, NE HO SCRITTO, MA BISOGNA RITORNARCI. L’identità storica e politica dell’Italia è fondata su due elementi base: la baruffa e la rimozione. La baruffa, perché la faziosità, il fare la guerra o le pernacchie (o meglio: la guerra e le pernacchie insieme) al vicino è una costante italiana che troviamo praticamente ovunque e da sempre. La rimozione perché, con altrettale regolarità, ogni nuova stagione politica è stata costruita sulla damnatio memoriae di quella precedente. Ecco in un periodo virtuoso per la cultura comasca, non elenco iniziative per non omettere qualcuno rimane un po’ di amaro in bocca. Como è un destino, non è scelto. Noi non scegliamo nulla né nome, né epoca storica. Noi siamo scelti e dobbiamo immancabilmente fare i conti con la “Bellezza” del luogo che ci ha scelti. E’ una città con un’individualità ben precisa ha un grandioso passato ma, ahimè, un ben misero presente. Como vive di rendita, è “una bella allo specchio”. Se ci pensate, Como non ha nulla che ne interrompa lo skyline, il lago, simbolo per eccellenza dell’altrove, le montagne con i loro verticalismi, Como ha un infinito intorno, qui è nata la straordinaria proliferazione di fantasia di scienziati e artisti. Leggere il territorio e il patrimonio artistico significa avere coscienza di se stessi ed essere parte viva di una comunità. Roberto Longhi diceva: “Gli italiani parlino la storia dell’arte come una lingua viva per avere coscienza della propria nazione”. Dobbiamo abbandonare l’idea che ci siano delle barriere delle formalità, limita quello che ci deve essere sempre: un dialogo, un colloquio quotidiano con il patrimonio artistico. La National Gallery di Londra è gratuita e non è difficile incontrare a pranzo gli inglesi che entrano nel museo solo per vedere un quadro. Le strutture artistiche devono essere luoghi in cui il rapporto è colloquiale, familiare e informale. Questi luoghi devono essere considerati come una piazza, un luogo in cui si entra. Dobbiamo creare un sistema museale sinergico, ci vuole una “bussola” d’autore per scoprire, passo dopo passo, luoghi, incanti e angoli nascosti di Como. Un museo deve avere un aspetto conservativo, fondarsi come Permanente, quella che per i tedeschi è la ‘kunsthalle’: compito dei musei è la testimonianza. Ma alla Pinacoteca di Como mancano il dinamismo, la vita, in una parola: ad esempio le collezioni non sono esposte a rotazione, non viene incrementato il patrimonio guardando soprattutto ai giovani creativi (si tenga presente che ad esempio oggi è molto diffuso il leasing anche tra i musei). Inoltre non si investe in comunicazione, né si incrementa la biblioteca. Pensi ad esempio quanto potrebbero essere utili delle postazioni multimediali». Il dinamismo dovrebbe essere fatto anche di «eventi musicali e teatrali, proiezioni, video». Non è un sogno, ma «un’utopia realizzabile. Ci si può arrivare attraverso piccoli passi, calibrando le spese». E il passato non ha senso se non vive nel presente. Lo scrittore comasco Massimo Bontempelli lo diceva chiaramente: la tradizione la facciamo noi». Como stava lentamente diventando una città normale anche grazie alle grandi mostre. Ha sofferto troppo l’anomalia di un ‘silenzio’ culturale che non meritava, grazie alle ricchezze di cui è dotata e alla sua posizione strategica. Come ha detto il noto critico e studioso Philippe Daverio “Perché Como non ha mai pensato di fare delle mostre che avessero delle ricadute di esaltazione sulla propria specificità? Voi avete uno dei primi edifici della cultura romanica al mondo: perché non si pensa di fare una manifestazione che permetta di capire cos’è il caso della basilica di Sant’Abbondio? Voi avete il “Paolo Giovio”, uno dei Musei civici più intelligenti del Nord Italia: perché non si apre a un evento che dia attenzione a questa situazione? Infatti, è più importante lavorare sulle identità delle città. Le mostre non sono fatte per fare utili, ricordatevi sempre la scritta, un po’ massonica, affissa al Teatro di Palermo, nel momento in cui la città era in piena avanguardia, subito dopo l’Unità d’Italia: “Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. Un bel concetto che esprime come la cultura debba formare l’identità e comunicarla». Como, con Cernobbio e Brunate, si era candidata a Capitale della Cultura Italiana con l’obiettivo di creare un sistema integrato per la produzione, promozione e valorizzazione del patrimonio culturale e turistico locale, ripartiamo da lì, creando sinergie e facendo “squadra”.
    Como è una città che lega il proprio nome a una dimensione estetica, conosciuta in tutto il mondo grazie alla bellezza del lago e alla tradizione serica. E’ una città che evoca la ricerca e lo sviluppo scientifico, basti pensare a due dei suoi più illustri “figli” Plinio il Vecchio e la sua Naturalis Historia e Alessandro Volta e l’invenzione della pila. La presenza di Villa d’Este a Cernobbio quale luogo di incontro per l’economia mondiale, da sempre richiama l’attenzione dei media italiani e stranieri.
    Como, Cernobbio e Brunate, hanno dimostrato di essere non solo in grado di proporre eventi culturali di qualità, ma di essere anche una Fabbrica della creatività, realizzando spettacoli, festival e kermesse (riproposti anche in altre città italiane ed europee), che negli anni hanno contribuito a creare un sistema culturale vivace e innovativo.
    E tutto il territorio intende attuare la valorizzazione del grande patrimonio culturale materiale e immateriale di cui dispone, favorendo e coltivando le eccellenze esistenti. Sarà l’occasione per sperimentare modalità di produzione e di partnership pubblico-private e un nuovo modello di business legato alla cultura, migliorando anche l’offerta turistica e rendendo il territorio ancora più appetibile. Affascinante ispirarsi a il Bregenzer Festspiele che si tiene tutti gli anni dal 1946. Certo, ci ha messo decenni a diventare quello che è ora e a guadagnarsi recensioni sul New York Times, ma ora è veramente un’attrazione fa-vo-lo-sa! E sprechiamo l’aggettivo, consci che non sia enfatico, stavolta.
    A Bregenz (circa 28.000 abitanti, badate bene) non c’era un teatro e così i lungimiranti sognatori pensarono di crearne uno nel punto più bello della cittadina: il lago. Cominciarono con due piccole chiatte: una per l’orchestra e una per la scenografia, e misero in scena – anzi in acqua – Bastiano e Bastiana, opera giovanile del genio mozartiano. L’idea bizzarra e azzardata venne premiata, il pubblico amò da subito questa piccola follia galleggiante, a suonare ci venne la Vienna Symphony Orchestra e di anno in anno il festival non ha fatto che crescere, sotto tutti gli aspetti: spettatori, 200.000 in media; contributi, 5.7 milioni di euro, 1.3 milioni da sponsor come Mercedes e Coca Cola e 20 milioni di budget totale; dimensioni del palco e delle tribune, 6.980 posti; attenzione dalla critica internazionale; durata della programmazione: un mese intero tra luglio e agosto e un cartellone che alterna l’opera o il musical principale (che cambia ogni 2 anni) e concerti classici; merchandising, indotto, fama… Bregenz ha anche avuto modo e fondi, nel tempo, per costruirsi teatri, sale da concerto, un centro culturale che fa perno sullo Seebuhne. Tutto questo in una cittadina di 28.000 abitanti. È noto ad esempio che Barbara Minghetti, presidente del Teatro Sociale, è affascinata dal festival che si tiene ogni luglio e agosto proprio a Bregenz in Austria.
    Como ha un “Museo della Seta” che va valorizzato e potenziato, un museo deve produrre cultura: in questo caso il Museo della Seta lo fa con una ricerca volta a individuare attraverso quali processi siamo arrivati al contesto in cui oggi operiamo, quali sono stati i cambiamenti avvenuti e chi ha contribuito perché avvenissero. In modo particolare indagando sulle relazioni che sono intervenute nel corso degli anni a Como tra il mondo tessile e lo sviluppo della società. Anche la fisionomia architettonica della città, come la conosciamo oggi, è stata influenzata dall’industria tessile nel suo complesso. Una cultura a cui il settore tessile ha dato, nel Comasco, un contributo essenziale, grazie non solo ai suoi esponenti di punta, ma al complesso del lavoro condiviso da imprenditori e maestranze.
    Una cultura che, con una lieve sottolineatura retorica, si può ben definire all’origine di una vera e propria “società della seta”. Ovvio che la città di Como debba puntare forte sul suo patrimonio razionalista. In occasione della rassegna “Le tracce del futuro – Il cuore razionalista di Como”, promossa dall’Ordine degli architetti, dodici lettere di tre metri segnaleranno un ideale percorso-caccia al tesoro tra le principali opere razionaliste della città lariana. Bisogna consolidare questa e altre esperienze di valore, come le manifestazioni e mostre in occasione del centenario della morte dell’architetto comasco Antonio Sant’Elia (1888–1916), una serie di eventi volti eventi celebra l’opera professionale e la vicenda umana dell’autore del Manifesto dell’Architettura Futurista.
    CIRDIALI SALUTI.
    Davide Fent
    @davidefent

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