“Adesso fai anche tu parte di questo club del cazzo”. Delle ore immediatamente successive si ricorda sempre poco, lampi, suoni, rumori e moltissimi odori. I giorni si accatastano in mucchi solidi, difficile capire quando e cosa sia accaduto: la linea del tempo si frantuma. Ma ricordo distintamente, come la memoria fosse materia che ancora tengo in mano, quella frase: “Adesso fai anche tu…”.
Il confine valicato della morte non concede uno “scusi, grazie, ci ripenso, torno indietro”. La strada che porta a quella dogana spesso è la malattia che è pure peggio del funerale. Così quelle parole, a distanza di mesi, esplodono in un atto di consapevolezza che solo un istante prima – quella domenica pomeriggio in ospedale, quando il vento fortissimo elettrificava aria e capelli – non avrei mai potuto avere. C’è un prima, c’è un dopo.
Ho conosciuto Francesca un pomeriggio di qualche anno fa. Conoscevo già Alessandro, la mia compagna di allora lavora con lui a Radio24, avevo cenato a casa sua ma Francesca e i bimbi erano via. Ci eravamo sfiorati molti anni prima quando corrispondevo per Agr e capitava che Francesca chiamasse per farmi registrare qualche servizio al telefono ma è una cosa che ho connesso solo più tardi.
Così la biondina è arrivata un pomeriggio in Feltrinelli a Como. “Wondy, ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro” era uscito da poco, un successo portentoso. E miracoloso, lo capii quando ci sedemmo per presentare il suo lavoro.
La parte più importante di quel momento non era lei, non ero io. Era la piccola platea davanti a noi.
Quasi solo donne, notai subito, solito cialtrone. Poi mentre Francesca parlava, raccontava, travolgeva tutti con quegli occhi celeste-cielo capii meglio. Non erano solo donne, erano ragazze, mamme, signore, nonne, esseri viventi.
Allora, solo in quel momento, toccai la realtà: foulard alla testa, parrucche, qualche viso diafano, certo consumato. Come si tenessero per mano, in cerchio e la avvolgessero: Wondy centro e loro intorno. Un unico organismo, un essere vivente fatto della stessa storia: la malattia. Ecco cosa stava accadendo: Wondy era lì con loro, per loro.
Segno della vita, della forza, dell’ostinazione. Testimone volontario nel processo al bastardo: il cancro. Le mani giunte, quasi chiuse a catena, che avevano all’inizio, 50 minuti dopo si erano esplose in risa pure, incontaminate. La nebbia evidente in molti occhi era stata spazzata via.
Ecco il supereroe, quello vero. Ricordai quanto avevo scritto il giorno prima per presentare l’evento (su QuiComo): “E dunque, a noi Clark Kent di quartiere che Superman che lo sogniamo giusto la notte, non resta che guardare, ascoltare e imparare. Imparare il “come si fa” ancora una volta da una donna: ché poi è la storia di sempre”.
Ecco la mia buona occasione per praticare il silenzio.
Così balzai a lato, limitai le domande alla minima giustificazione della mia presenza e le feci in dosi omeopatiche, quasi in imbarazzo. La connessione era tra loro.
E, credete, non importa che qualche anno dopo la malattia abbia preso Wondy, non è una lotta. Non si vince o si perde: si vince sempre quando si è capaci di raccontare la propria esistenza e farne strada, simbolo, racconto per l’altro.
Quel giorno, più di una maledetta chemioterapia, le parole di Francesca stavano curando quelle donne. Occhi chiaramente stanchi si rasserenavano, distendevano e poi esplodevano in risate pazzesche.
Alla fine della presentazione Wondy venne letteralmente assalita. Così uscimmo ad aspettarla, chiamai il ristorante e spostai la prenotazione di un’ora, non l’avrebbero liberata presto. Ale è uno che si nota, che viene riconosciuto, ovviamente. Quel giorno però era altrove con me, l’occhio di bue naturale era tutto su Francesca.
“E’ andata bene”
“Grazie, Ale”
“Smettila di fumare”
“Eh”
“No, davvero, smettila”
“Tutto bene?”
“Gli esami di Francesca…”
Fu lei a raccontarcelo meglio, dopo, davanti a 3 chili di fiorentina (a testa, ovvio) salumi di Cinta Senese e tre bottiglie di Ruffino riserva Ducale (una di quelle cose che spiegherebbe l’esistenza di Dio). Non importa cosa raccontò, non sta a me decidere quale pezzo di una vita debba diventare pubblico.
Ma questo è il piccolo, marginale, invisibile capitolo non scritto che mi porto in saccoccia. “Mi vivi dentro” per me inizia da lì. E’ il libro che Ale ha scritto per Francesca.
Qualche anno dopo mia mamma si è ammalata ed è morta. Ne ho scritto solo una volta e ho giurato che non l’avrei più fatto: sei mesi di malattia avevano digerito lei e consumato Federico, mio fratello, riducendoci a due foglietti di velina. Non scriverne, devo aver pensato, alleggerirà cuore e pensiero. Parlarne forse ma mai fissare il dolore sulla carta. Coglione, sciocco, superbo.
Serve tutto il contrario l’ho imparato grazie a Ale. Ale che oggi, come la sua Wondy con quelle meravigliose sue compagne quel pomeriggio in Feltrinelli, sta salvando noi sopravvissuti. Noi che in quel Club del cazzo ci siamo e dobbiamo restare e nel tempo, inevitabilmente, prenderemo nuove tessere. Noi che non sappiamo se rimuovere o ricordare, se sottrarre o raccontare. Noi che in quello stipo di memoria senza tempo raggrumiamo mesi e giorni senza ricordare quando sia accaduto cosa.
Noi che abbiamo tenuto la morte per le mani mentre il vento soffiava elettrico e gli occhi di nostra madre, imbevuti di morfina, fissavano un angolo del soffitto chiedendo soltanto che i battenti cadessero e la pace arrivasse. Noi che incontriamo solo nei sogni quanti se ne sono andati e ci facciamo delle gran chiacchierate.
Noi superstiti che possiamo nel gesto, nell’atto, nel racconto di Alessandro Milan finalmente tirare un respiro pieno, tondo, pieno. “Mi vivi dentro” è una carezza, un canto, una partitura trionfale della vita, del bello. Una risonanza che ci lega tutti, fratelli di questa medaglia dai due volti inscindibili: vita e morte. Non c’è nessun abracadabra, badate bene. Non servono pozioni o pergamene. C’è una storia, una grande storia di vita, morte e amore. Eterno, inviolabile.
Del libro parlerà Ale, io volevo solo dirvi perché ha un senso (il mio personalissimo senso) che veniate domani alle 18 a Villa Olmo. Saremo lì per chiacchierare: Wondy, Alessandro e io.
Ah, rividi Wondy qualche tempo dopo per la sua festa dei 40. Tema Flower Power, vestiti da scemi in pratica.
“Che figo con quel vestito”
“Tu sei più figa”
“Sempre bello mio, sempre”
Non ci incontrammo più.
Un commento
Articolo “superb” Davide. Ci vediamo domani. Vittorio