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I ciliegi, le emozioni e il ‘papà vestito bene’: perché una città non è soltanto ferro e cemento

Quanto contano i legami sentimentali tra cittadini e città? Alla fine di questi giorni tumultuosi, l’eredità della vicenda ciliegi – al netto del temporaneo stop ai tagli giunto ieri dal Tar – ruota e ruoterà comunque attorno a quella domanda. La sensazione che sembra sedimentarsi, con un gruppo di cittadini strenuamente in difesa dei ‘loro’ alberi e un’amministrazione invece schiacciata sul mero funzionalismo, è che tra i due mondi sia mancata del tutto una connessione delle emozioni. Umana. E questo prima ancora di ogni ragionamento tecnico, agronomico, economico, politico, estetico.

Ciò che sembra evidente, al di là di come ognuno la pensi, è che fra le due parti sia stato assente un gancio più profondo del pro o contro, qualcosa capace di mettere in comunicazione su un terreno di mezzo, eppure comune, la sfera delle ragioni materiali con quella più umana dei ricordi, dell’attaccamento a una storia, della bellezza che non ha fini oscuri.

Si dirà, per certi versi comprensibilmente, che un’amministrazione non può governare con le emozioni o sulla base di esse. E su un piano pratico è certamente vero. Però si può governare avendo cura – almeno in un tratto del percorso, per addolcire le asperità – anche delle emozioni. Senza ridurre tutto e subito alla logica definitiva e senz’anima di conti, perizie e delibere, persino sapendo che una decisione potrà non cambiare, per destino o convinzione.

Como – come qualunque città – non è soltanto palazzi, lampioni e parcheggi. C’è una linfa immateriale e invisibile che scorre dentro e in mezzo a isolati e quartieri; qualcosa che in qualche forma dà vita persino a palazzi, lampioni, parcheggi. Alberi.

Quella sorta di ‘soffio vitale’, che dona un’altra dimensione a ferro, mattoni e ramaglie, è ciò che è accaduto nel tempo attorno a quel mondo inanimato. È ciò che hanno vissuto lì le persone, per anni e da anni. Sono le storie e le memorie di ognuno, in sostanza, che danno alla città colori, forma e sensazione di un racconto comune. Sono i singoli tasselli che, fusi in affresco più vasto, trasformano marmi, metalli e cortecce in un grande libro che respira. Il dipanarsi nel tempo di tante piccole vicende – ognuna con i suoi torti e le sue ragioni – rende ogni individuo un affluente importante in un fiume più grande. Che accende il cuore della città, a quel punto organismo e non solo somma di numeri. Lì nasce un senso più profondo, che si nutre di simboli e legami.

Nessuno chiede (né ha chiesto in questi giorni) di governare Como con nostalgie, Polaroid o eterni incantesimi. Nessuno ha chiesto di fare della città un presepe immutabile.

In queste settimane, un gruppo di persone che non vede solo radici ma le sente come piccola parte di sé, ha difeso, con le piante, degli spicchi di vita. E le emozioni che li hanno abitati.

Nel palazzo si è invece deciso che no, tutto quello non conta. Ha deciso di fregarsene, testuale. Che è un po’ come se qualcuno – tribunali permettendo – strappasse a forza qualche pagina dal tuo diario, dove c’è tutto, come sotto gli alberi di un viale: un giorno di sole, il papà vestito bene, la pioggia in primavera, un pianto, forse un bacio o una corsa verso il treno. Non sarà la fine del mondo, naturalmente. Tra 20 anni, forse, qualcuno scenderà in strada con le luci dell’alba per difendere il candore dei peri. Eppure ogni addio, persino il più piccolo, è un po’ sempre una ferita. Che guarirà, prima o poi, non c’è dubbio. Ma si poteva tamponarla già adesso, con un pizzico di comprensione.

Si è scelto – per forma e per modi – di governare con la forza e le perizie, di gettare del sale sui graffi. Sono sicuro: qualunque sia la fine, brucerà più questo, nella memoria pur piccola di una via di quartiere, del rumore che fa un ramo quando cade.

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