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Punti di vista

“La storica armonia, la trasformazione, il dialogo con la città. La domanda da farci sul nuovo stadio di Como”

Il dibattito sul nuovo stadio Sinigaglia di Como – ma anche sul lungo passato dell’impianto, in relazione al contesto e ai suoi frequentatori – continua a raccogliere opinioni, interventi e pareri (per scriverci, la mail è redazionecomozero@gmail.com).

Oggi accogliamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Chiara Smedile, un’artista visiva che collabora con l’Archivio Giuseppe Terragni, occupandosi di catalogazione e ricerca nell’ambito dell’architettura e della memoria urbana. La sua riflessione intreccia filosofia, architettura e paesaggio “per interrogarsi sul significato del costruire oggi” e – riportiamo – senza schierarsi “in alcun modo nelle attuali discussioni sullo stadio” ma semplicemente “per  offrire una voce in più al dibattito, portando un contributo critico sulla relazione tra progresso, memoria e paesaggio”.

“Ogni progresso è solo un’interpretazione e una ridefinizione del passato”. Così scrive Friedrich Nietzsche nella Genealogia della morale, mettendoci in guardia dall’idea che il progresso sia un fenomeno lineare e intrinsecamente positivo. Spesso, ciò che chiamiamo “avanzamento” è solo una rilettura arbitraria del passato, un’imposizione di nuove logiche che cancellano, senza necessariamente migliorare.

Oggi, il Sinigaglia, simbolo storico della città di Como e testimone silenzioso di generazioni di tifosi, si trova al centro di un cambiamento radicale. La sua ristrutturazione viene presentata come un passo inevitabile verso il progresso, ma pone un interrogativo fondamentale: cosa intendiamo realmente per progresso? Fin dalla sua origine, lo stadio ha vissuto diverse trasformazioni. Il primo progetto, firmato da Giovanni Greppi, nasceva come un “campo olimpico”, pensato non solo per il calcio ma anche per la corsa e altre attività.

Guardando le immagini storiche, emerge un’armonia tra l’architettura e il paesaggio circostante, una relazione che nel tempo è andata perduta sotto la spinta di successive modifiche e ampliamenti. Oggi, la nuova ristrutturazione sembra inserirsi in questa stessa logica: un processo di trasformazione che rischia di spezzare ulteriormente il legame con il contesto urbano e naturale. Platone, con la sua idea di kalokagathia, ci ricorda che il bello e il buono devono coesistere: non può esistere “una buona architettura ” se non è in armonia con l’ambiente e la comunità.

Il rischio è che l’armonia venga sacrificata in nome dell’efficienza, della funzionalità e della logica del profitto. Ma cos’è oggi l’armonia? In questo senso, mi torna in mente l’insegnamento dell’architetto Italo Rota, che invita a visualizzare l’architettura come parte integrante della natura. Troppo spesso l’essere umano si dimentica di appartenere a essa, costruendo come se fosse un’entità separata, mentre forse per vivere serenamente un paesaggio abbiamo bisogno di rispettarne la presenza e la voce.

Anche Giorgio Agamben, riflettendo sul contemporaneo, parla di una modernità che si impone con brutalità, accelerando il presente e cancellando il passato. Se la trasformazione dello stadio avviene in modo dissonante rispetto al contesto, siamo davvero di fronte a un progresso o, piuttosto, a una frattura? Non rischiamo, ancora una volta, di spezzare il legame tra Como e il suo paesaggio, tra la città e la sua memoria? Forse, allora, dovremmo interrogarci non solo su cosa significa costruire, ma anche su cosa significa abitare. Abitare non è semplicemente occupare uno spazio, ma instaurare con esso una relazione, riconoscerne la storia e il respiro.

L’antropologo Matteo Meschiari, nel suo libro “Disabitare”, scrive: “La casa non è solo un rifugio, ma un modo di stare al mondo. Costruire significa sempre anche disfare, modificare, sottrarre qualcosa al paesaggio originario. Ma cosa accade quando l’abitare smette di ascoltare il luogo e si riduce a una mera operazione funzionale?”. Questa domanda si riflette perfettamente nella trasformazione del Sinigaglia. Se la città e i suoi abitanti non riconoscono più lo stadio come parte di un paesaggio condiviso, se esso diventa solo un oggetto in balia delle esigenze del mercato, allora stiamo assistendo a una perdita ben più grande di un semplice edificio. Abitiamo ancora il nostro paesaggio o lo stiamo semplicemente consumando?

Il rischio è che la modernità avanzi senza memoria, imponendo cambiamenti che ci separano dai luoghi invece di rafforzare il legame con essi. Forse il vero progresso non è costruire, ma imparare ad abitare. Forse la vera domanda da porsi non è solo se questo rinnovamento sia necessario, ma come esso possa inserirsi in un dialogo più ampio con la città e il suo equilibrio naturale. In un mondo in cui il cambiamento avviene sempre più rapidamente, dovremmo chiederci se esista ancora uno spazio per una crescita che non sia solo sviluppo, ma che sappia rispettare la storia e ascoltare il respiro del Lago e dei cittadini.

Chiara Smedile

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