Bisogna leggere con minuzia, analizzare la virgola e mettere gli incisi al microscopio.
(Sarebbe necessario approfondire pure qualche elemento dottrinale – nel senso del raffronto con le posizioni della Congregatio pro doctrina fidei – data la potenza della riflessione. Ma questo non è un Concilio Vaticano: è solo un giornale).
Eppure.
Il 28 ottobre Don Roberto da Grandate, sul sito della parrocchia, ha sganciato una nuova atomica su Santa Romana Chiesa, davvero.
Il detonatore? La nomina di due laiche (Michaela Wachendorfer e Susanne Wuber) alla guida di altrettante parrocchie nelle isole di Juist e di Langeoog, nel mare del Nord (sotto: l’intero editoriale dove Pandolfi dettaglia le circostanze).
Una riflessione ampia, aperta, autoanalitica (ci siamo chiesti, a lungo, se a tratti non ironico-provocatoria, resta davvero il dubbio ma sembra di no) sul ruolo del parroco.
Scrive, piaccia o meno, il sempre molto libero don Roberto Pandolfi: “E mi chiedo: per fare il parroco (o il responsabile di comunità o il coordinatore o comunque lo si voglia chiamare) è proprio necessario essere prete? Non potrebbe, il prete, essere uno dei tanti operatori pastorali della parrocchia, addetto interamente ed esclusivamente alla celebrazione dell’Eucaristia , della Confessione e dell’Unzione dei malati? Perché per fare tutto il resto non è necessario essere prete“.
Insomma, il pensiero sembra portare allo scardinamento di un ruolo innestato (da un paio di millenni circa, pur con le doverose evoluzioni) non solo tra comunità religiosa e referente spirituale-sacerdotale ma anche tra immaginario popolare (quindi anche secolarizzato: sociale, politico) e funzione del parroco.
Aggiunge Pandolfi, giusto per mettere altro additivo: “Questo tipo di assistenza spirituale sarebbe il “proprium” del ministero presbiterale anche in comunità dove il ruolo dirigente appartenga ad altri membri del Popolo di Dio. Credo che una soluzione del genere aiuterebbe a liberare la Chiesa dal clericalismo e i preti da quel “potere” la cui gestione tanti danni può provocare a livello psicologico e relazionale. Se poi si aggiungesse una durata precisa al ministero di parroco o coordinatore (cinque anni, eventualmente rinnovabili una sola volta) si potrebbero evitare carrierismi e attaccamenti spesso insani, che costituiscono tentazioni per ogni essere umano e non solo per i preti“.
Da rileggere benissimo: “Che costituiscono tentazioni per ogni essere umano e non solo per i preti”. Interessante, piuttosto.
Ma, al di là degli estratti, conviene affrontare integralmente l’editoriale del sacedote, eccolo:
Michaela Wachendorfer e Susanne Wuber sono due laiche nominate da mons. Bode, vescovo di Osnabruck e vicepresidente della Conferenza episcopale tedesca, alla guida di due parrocchie nelle isole di Juist e di Langeoog, nel mare del Nord. Parlando del ruolo delle suore in Amazzonia, nel corso del Sinodo, suor Alba Teresa Cediel Castillo ha dichiarato: “Amministriamo i Battesimi e anche i matrimoni. Se qualcuno si vuole sposare c’è la possibilità che lo facciamo noi. Se una persona viene in chiesa e chiede di confessarsi noi l’ascoltiamo con umiltà anche se non possiamo chiaramente dare l’assoluzione”. Al netto delle affermazioni un po’ sbarazzine della suddetta suora penso che si stia ponendo nella Chiesa la questione del ruolo ministeriale dei laici, uomini o donne che siano.
E mi chiedo: per fare il parroco (o il responsabile di comunità o il coordinatore o comunque lo si voglia chiamare) è proprio necessario essere prete? Non potrebbe, il prete, essere uno dei tanti operatori pastorali della parrocchia, addetto interamente ed esclusivamente alla celebrazione dell’Eucaristia , della Confessione e dell’Unzione dei malati? Perchè per fare tutto il resto non è necessario essere prete.
Questo tipo di assistenza spirituale sarebbe il “proprium” del ministero presbiterale anche in comunità dove il ruolo dirigente appartenga ad altri membri del Popolo di Dio. Credo che una soluzione del genere aiuterebbe a liberare la Chiesa dal clericalismo e i preti da quel “potere” la cui gestione tanti danni può provocare a livello psicologico e relazionale. Se poi si aggiungesse una durata precisa al ministero di parroco o coordinatore ( cinque anni, eventualmente rinnovabili una sola volta) si potrebbero evitare carrierismi e attaccamenti spesso insani, che costituiscono tentazioni per ogni essere umano e non solo per i preti. Forse si farebbero dei passi in avanti verso una Chiesa autenticamente ministeriale, dove ogni membro ha la stessa dignità degli altri e contribuisce all’edificazione della Comunità sulla base del proprio carisma.
Ho l’impressione che il dibattito sui “viri probati” (uomini stimati che possano essere ordinati presbiteri anche se già sposati) sia un dibattito di retroguardia, ancora fermo ad un concetto molto clericale, se non si separa il ruolo del “parroco” da quello di chi si occupa della sfera spirituale. E’ lecito sognare? E allora sogno una parrocchia dove ci sia un prete che celebra la Messa e si dedica alle Confessioni, un laico, uomo o donna, a seconda dei carismi e delle competenze, che si occupi dell’aspetto economico, uno che svolga il ministero dell’ascolto, uno quello delle celebrazioni dove non sia necessaria la presidenza del prete, uno quello degli interventi caritativi, uno quello del coordinamento educativo… A me sembra una Chiesa più bella, questa.
don Roberto
(tutte le immagini da: parrocchiagrandate.it)
Un commento
Beh, diciamo a priori che quelle menzionate sono parrocchie di “frontiera”. La realtá di queste comunitá non puó assurgere a paragone né fare scuola. Non dimentichiamo poi che una riflessione di un sacerdote non é un diktat ecclesiale ma una riflessione di un singolo xhe magari ha qualche sassolino nella scarpa…