Nascosta tra i boschi del Comune di Centro Valle Intelvi, immobile, probabilmente, da mezzo secolo, sempre nello stesso posto. Parliamo di una Fiat 1100, ritrovata da alcuni residenti tempo fa, che, per il momento, non hanno voluto rivelare la sua precisa collocazione per evitare atti vandalici.
Perché raccontiamo di quest’auto? La risposta la danno i sedili posteriori e del passeggero, tutti staccati. Caratteristica fondamentale per una macchina da contrabbandiere che si rispetti. Lo racconta Alfredo Nicoli, noto fotografo della Valle Intelvi, che negli ultimi anni ha raccolto moltissimo materiale e racconti sugli sfrusaduu (come vengono chiamati in dialetto locale): “Nella zona, in cui l’abbiamo ritrovata, c’erano al tempo diverse caserme dei finanzieri (storici ‘rivali’ dei contrabbandieri, Ndr) – spiega – Inoltre la Fiat 1100, insieme alla Alfa Giulia, erano i modelli più utilizzati per questo tipo di operazioni, erano molto veloci e capienti. Infine i sedili venivano staccati perché così la vettura poteva contenere più merce”.
Il contrabbando sul lago era gestito da delle vere e proprie organizzazioni criminali e spesso gli episodi violenti non mancavano: “Gli inseguimenti tra vetture erano molto frequenti e mi piace pensare che anche questa sia finita nel bosco per lo stesso motivo – racconta – Mio padre mi aveva raccontato che da bambino aveva visto una macchina che scendeva dal monte Sighignola con tutte le gomme bucate e di conseguenza faceva scintille sull’asfalto. Questo succedeva perché i finanzieri lanciavano per strada il cosiddetto “cinturone”, una lunga catena chiodata, che danneggiava irreparabilmente i pneumatici. Oppure un’altra volta successe che i contrabbandieri, una volta arrivati sul lago a Colonno, al tempo grande centro di smistamento della merce illegale, buttarono la macchina nel lago per far sparire le prove”.
Ma le avventure degli sfrusaduu non finiscono qui, e al tempo non poterono mancare vicende degne dei migliori polizieschi hollywoodiani: “Alcuni di loro si travestivano da donna con tanto di rossetto e parrucche – dice – Tutto questo veniva fatto per non dare nell’occhio con i finanzieri. Molto spesso, grazie a questa strategia, riuscivano a farla franca”.
Insomma, racconti antichi e densi di fascino, che fanno parte della storia del nostro territorio. Ma cosa significava effettivamente per un contrabbandiere camminare per numerosi chilometri tutte le notti e portare un sacco pesante di decine di chili sulle spalle per ore e ore? Lo abbiamo chiesto direttamente a uno di loro che, per ovvi motivi, ha deciso di rimanere anonimo: “Ho iniziato perché non c’era lavoro, avevo 16 anni e facevo il panettiere ma prendevo poco – racconta – Andavamo a piedi fino a Erbonne, poi a Scudelatte (piccolo borgo svizzero al confine con l’Italia, Ndr) e infine al Monte Generoso, ma i percorsi potevano cambiare spesso. Al tempo c’era il nostro capo che faceva la civetta e ci avvisava se i finanzieri erano in zona, a volte io rischiavo lo stesso perché avevo bisogno di soldi. Poi portavamo il sacco in un luogo prestabilito, dove i contrabbandieri di Castiglione venivano a recuperarlo. Io andavo a sfrusa’ (contrabbandare, Ndr) perché dovevo da giovane pagare la moto e poi, una volta cresciuto, la casa che stavo costruendo, oltre che mantenere mia moglie e i miei figli”.
Non sempre però i contrabbandieri riuscivano a passarla liscia: “Una volta mi hanno arrestato – spiega – Ero andato a prendere il sacco in mezzo ai boschi e mentre camminavo tra gli alberi mi ha scoperto la Guardia di Finanza che ha lasciato andare i cani che, mordendomi il sedere, mi hanno fatto cadere il portafoglio. Sono riuscito a scappare ma ormai avevano i miei documenti e in pochi giorni mi hanno portato in caserma”.
La vita, in quegli anni di miseria per l’Italia, non era semplice, soprattutto nelle zone ben più che periferiche come il lago: “Ho dovuto fare il contrabbandiere per 12 anni – racconta – Qualsiasi altro lavoro avessi svolto non mi avrebbe fatto guadagnare abbastanza soldi per tirare a campare e per pagare tutte le spese. Facevo 4 o 5 ore di cammino tutte le notti, portando sulle spalle un sacco con 30 kg di sigarette. In una serata tipo andavo ad Arogno, in Svizzera, prendevo il sacco e lo portavo a Castiglione, da lì la merce partiva per Milano o per la Tremezzina. In alcuni periodi è capitato che di giorno lavorassi 14 ore come autista e poi la sera dovevo andare nei boschi a contrabbandare. Per dormire qualche ora mi nascondevo tra le piante”.
Ma gli sfrusaduu non si limitavano a questo, anzi era tutto organizzato secondo un preciso sistema criminale: “A volte ero in quelle lunghe macchinate che portavano i sacchi da Castiglione a Colonno – dice – Da lì la merce veniva caricata sulle barche e veniva portata altrove. Tutto era però coordinato dalla Tremezzina, dove c’erano i pezzi grossi, che, a volte, è capitato si accordassero con i superiori dei finanzieri per avere protezione nei viaggi, in cambio di un compenso economico”. Nonostante tutto, però, il rapporto con le Forze dell’Ordine non era così pessimo come si possa credere: “Spesso di giorno giocavamo a carte con loro all’osteria, nonostante sapessero chi eravamo e cosa facevamo, ma questa non ci impediva, in quella circostanza, di stare insieme – racconta – A volte è capitato che ci facessero anche passare nei boschi, perché sapevano che eravamo pesci piccoli e contrabbandavamo solamente per mangiare”.
Ed è tutto qua, una delle tante storie di miseria del nostro territorio, in anni in cui centinaia di uomini si muovevano nella notte, armati di bricolla (il sacco), per portare a casa un pezzo di pane per i loro figli. Riguardo il mistero dell’auto? Forse non sapremo mai la verità sulla sua storia.