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GIORNATA DELLA MEMORIA Ponte Chiasso: “Quando mia madre tornò dall’inferno nazista”

Ponte Chiasso: una striscia di confine percorsa da centinaia di persone che, ogni giorno, raggiungono il posto di lavoro oltrefrontiera.
Trafficata anche nel 1943, quando migliaia di esseri umani cercavano di raggiungere la Svizzera per salvarsi dal regime nazifascista.
E proprio lungo il confine, in via Vela 1, sorgeva un giardino che ha respirato ogni sentimento umano possibile: amore e odio, coraggio e paura, speranza e disperazione.

la famiglia Luca al completo in una foto del 1939, da sinistra Giuseppina Pansìca, Rosaria, Alfredo, Giuseppe, Salvatore e Ignazio Luca ph: Carlo Pozzoni

Un varco segreto che ha donato la vita a molte anime in fuga e visto l’intreccio di destini tra un giovane finanziere sardo, Giovanni Gavino Tolis, e la famiglia siciliana Luca, giunta a Como nel 1931, composta dal padre Salvatore, finanziere in congedo, dalla madre Giuseppina Giovanna Panzica, e dai quattro figli, Ignazio, Alfredo, Rosaria e Giuseppe.

Giuseppina Giovanna Panzica in una foto del 1950 ph: Carlo Pozzoni

La Roggia Molinara, situata dove correva la linea di confine e soggetta a una stretta vigilanza da parte delle autorità repubblichine, passava proprio accanto al giardino dei Luca.

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“Mio padre – racconta Rosaria Luca, oggi 86enne – era uno spirito libero e apolitico. Un uomo bellissimo e generoso. Faceva il calzolaio, non era ricco, ma accoglieva chiunque avesse bisogno. Si schierava sempre con i deboli, era la sua indole”.

Ponte Chiasso Rosaria Luca mostra l’album con le foto di famiglia. Fotoservizio: Carlo Pozzoni

Dopo il 25 luglio del ‘43, Salvatore Luca si dichiarò apertamente antifascista collaborando all’abbattimento degli emblemi posti sulla Casa del Lavoro in via Bellinzona a Ponte Chiasso.

Nei giorni di sbandamento successivi all’8 settembre 1943, la famiglia Luca favorì l’espatrio di ebrei e oppositori del regime facendoli passare dal proprio giardino, in un tratto della rete confinaria opportunamente tagliato alla base. “Avevo solo 11 anni – ricorda Rosaria – non sospettavo nulla”.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la successiva occupazione militare tedesca portarono l’Italia del centro-nord nel buio della Shoah e verso la fine di quell’anno, il finanziere Tolis, che prestava servizio alla frontiera italo-svizzera di Ponte Chiasso, entrò in contatto con la famiglia Luca condividendone gli ideali.
“Tolis era un uomo tutto d’un pezzo – sottolinea con affetto Rosaria – riservato come molti sardi, di animo gentile. Di giorno lavorava e di sera studiava”.

Salvatore Luca in una foto del 24 ottobre 194o mentre passeggia per Como ph: Carlo Pozzoni

Salvatore Luca, nel gennaio del ’44, fu costretto ad andare a lavorare in Germania con i figli Ignazio e Alfredo per evitare rappresaglie da parte dei fascisti.

Nel frattempo, Gavino Tolis e Giuseppina Giovanna Panzica continuarono la loro eroica missione collaborando al Gruppo Frama (Fra.Ma sono le sillabe iniziali dei professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi), un’organizzazione clandestina che assicurava i rifornimenti alle brigate partigiane e favoriva gli espatri di antifascisti ed ebrei. Gli agenti della Frama consegnavano le lettere, la valuta, i documenti riservati e i messaggi clandestini nelle mani di Tolis, il quale, attraverso la signora Panzica, ne curava il passaggio oltre confine.

“Tolis e mia madre vennero segnalati al controspionaggio tedesco – continua – e il 24 aprile del ’44 perquisirono casa nostra. Trovarono una lettera nella quale si accennava al transito clandestino di ebrei. Mia madre non parlò. Venne portata via”.

Rosaria e Giuseppe vennero mandati rispettivamente dalle Canossiane e al Gallio di Como. “Giuseppe tentò molte volte di fuggire – ricorda con sofferenza – anche per me fu atroce. Solo grazie alla mia insegnante Gabriella Guzzi trovai la forza di sopravvivere. Ricordo ancora quel Natale di solitudine: tutti tornarono a casa ma non io. Rimasi lì, vestita con i pochi abiti logori che possedevo”.

Gavino Tolis finirà i suoi giorni a 25 anni nel campo di concentramento di Mauthausen mentre Giuseppina Giovanna Panzica subirà la prigionia nelle carceri San Donnino a Como e San Vittore a Milano dove, dal binario 21, partì prima per il campo di transito di Bolzano poi per il lager di Ravensbrück che raggiunse nel settembre del ’44. Il più grande campo femminile della Germania nazista, tristemente famoso per la manodopera schiava, le torture e gli esperimenti su cavie umane. Circa 100mila le morti tra il’39 e il ‘45.

“La misero su un vagone bestiame – accenna con voce tremante – ammassati, con una latrina in comune. Umiliati in tutti i modi possibili”.
Nel giugno del ’45 Salvatore Luca e i figli rientrarono a Como e solo allora scoprirono la sorte della donna.

“Con il passare dei giorni – aggiunge Rosaria trattenendo a stento le lacrime – iniziarono ad arrivare le prime notizie sui campi di concentramento. Papà cercò di parlarmi, di farmi capire che forse mamma non sarebbe tornata. Urlai. E sperai”. Speranze tramutate in realtà nell’ottobre del 1945: la madre, dopo mesi di straziante sofferenza, bussò alla porta di casa. “Come posso descrivere la gioia? – racconta Rosaria cercando nella memoria il brivido di quel momento – dopo tanto dolore, la mia famiglia era riunita”.

Il campo di concentramento femminile di Ravensbrück

Negli anni successivi, Rosaria chiese spesso a sua madre di raccontarle le atrocità subite. “Una donna taciturna, timida, riservata – ricorda con dolcezza – la pelle chiara, i lineamenti delicati. E una forza d’animo inenarrabile. Tenne tutto dentro, non volle farci soffrire. Uno spirito nobile e generoso, un coraggio silenzioso. Aiutò i deboli, rischiando tutto ciò che aveva”.
La donna venne liberata dai russi nell’agosto del ’45, dal nord della Germania arrivò a piedi fino a Merano dove fu poi aiutata a rientrare a Como.
“Mi raccontò della fame – sottolinea con un filo di voce – e della gente che rovistava nella spazzatura per mangiare. Cosa che non fece mai. Parlò dei lavori forzati raggiunti dopo ore di cammino al freddo e del braccio assiderato. Delle epidemie dovute alle inesistenti norme igieniche. Della Kapò slovena che le consigliò di non rivelare ai russi che fosse italiana per non correre pericoli. Degli oggetti presi per strada, sulla via del ritorno, perché non sapeva come avrebbe trovato Ponte Chiasso, raccolti per i figli nel fagotto che portava sul suo corpo scarno quando bussò a casa. Pensò a noi sempre”.

Gavino Tolis e Giuseppina Giovanna Panzica sono stati insigniti della Medaglia d’oro al merito civile con decreto del Presidente della Repubblica rispettivamente nel 2010 e nel 2018 grazie, anche, alla proposta del Maggiore Gerardo Severino, direttore del Museo storico della Guardia di Finanza e autore del libro “Il contrabbandiere di uomini” (Delfino editore).

Medaglia consegnata alla famiglia Luca il 25 gennaio 2019 dal prefetto di Como Ignazio Coccia. “L’Italia – conclude – è un Paese di contraddizioni: a mia madre venne negata la pensione di guerra e anni dopo le hanno conferito un riconoscimento così grande”.

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