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Il centro migranti nella memoria dei volontari delle Coop: “La chiusura? Una frustrazione”

Il centro migranti di Via Regina ha chiuso i battenti nell’autunno scorso per precisa volontà della Lega con il sottosegretario all’interno (comasco) Nicola Molteni che si è speso in prima linea.

La decisione è stata preceduta da (e ha generato poi) decine di polemiche, inaspettatamente trasversali:

QUI TUTTE LE CRONACHE

La struttura, nei due anni della sua esistenza è stata dunque una parentesi che ha segnato la politica e il vivere di Como.

Ph: Congregalli – Immagine di copertina: Pozzoni

Proprio per ricordare l’impatto che la crisi migratoria ha avuto nel periodo tra il 2016 e 2018, Caritas Como e la cooperativa Symplokè hanno rilasciato un report intitolato “La Sfida dell’Accoglienza – L’esperienza al campo CRI di “Osvaldo Cappelletti” di via Regina Teodolinda”, una cronaca dei due anni di vita della struttura, attraverso gli occhi degli operatori.

“Fare memoria per non dimenticare” – la storia del campo

Il report si apre con una cronistoria delle tappe fondamentali dell’evoluzione del campo, dalla sua apertura nel settembre del 2016, passando per eventi come la visita del Vescovo di Como, Oscar Cantoni o i picchi di presenze collegati al numero in crescita degli sbarchi nel 2017, fino ai più recenti sviluppi politici in fatto di accoglienza nel solco delle elezioni politiche del 2018.

Roberto Ciriminna, operatore di Symplokè: “Aiutate 7mila persone: esperienza indimenticabile”

Il report include poi numerose testimonianze di chi ha assistito la popolazione migrante in transito per Como e che hanno ricordato l’impatto che questo tipo di lavoro ha avuto sulle loro vite, come nel caso di Roberto Ciriminna, operatore della cooperativa sociale Symplokè:

«Ricordo una famiglia: papà, mamma e tre figlie. Sono rimasti al Campo circa 6 mesi, poi hanno trovato accoglienza in una struttura coordinata da Symploké. Alcuni mesi dopo ho rivisto il papà di nuovo al Campo come operatore volontario della Croce Rossa. da ospite a operatore… il passo è stato breve. Tuttavia non potrò mai dimenticare il viso e gli occhi di tante donne, in prevalenza nigeriane, che giungevano da noi via mare sui barconi, dopo aver subìto per lunghi mesi ogni genere di violenza nei campi di detenzione libici […] Aiutare 7.000 persone in un lungo percorso verso la speranza ti fa vedere il mondo e la tua stessa vita in un’altra prospettiva. Per quanto riguarda il lavoro, tutti noi abbiamo acquisito un patrimonio di conoscenza e di professionalità che non andrà mai perso e che potrà essere messo a disposizione anche in futuro».

“Una chiusura repentina, senza programmazione”

Altri, molti tra gli operatori, erano volontari alle prime armi, spesso giunti al termine di un percorso di studi, come Claudia Cairoli che nel 2015 aveva appena finito un master in International cooperation and development presso l’Università Cattolica di Milano ed era in cerca di uno stage, poi trovato proprio al centro in via Regina, che in poche righe ricorda tutta l’esperienza al campo, fino al suo epilogo.

Ho accettato la sfida, scoprendo giorno dopo giorno quanto fosse importante e utile il nostro lavoro. Fare oggi, dopo alcuni mesi di chiusura definitiva del Campo Cri, un breve bilancio di questa importantissima esperienza professionale e umana non è semplice. Sintetizzerei tutto con poche parole: all’inizio, tanta complessità, organizzazione da costruire giorno dopo giorno e un’enorme quantità di lavoro da svolgere. Alla fine: una chiusura repentina, senza programmazione e soprattutto decisa senza comunicazione e coinvolgimento di chi per lunghi mesi ha lavorato quotidianamente in quel luogo. Questa vicenda è stata vissuta da tutti noi con frustrazione.


Camilla Ostinelli, racconta, invece, un altro dei problemi più spinosi che gli operatori si sono trovati a fronteggiare: i minori non accompagnati.

«La maggior parte dei ragazzi non sono minori come ce li immaginiamo noi, sono minori “grandi”, hanno già vissuto più di una vita intera. Spesso traumatizzati, con storie agghiaccianti alle spalle, a volte disillusi, spesso decisi ad arrivare in Svizzera per attraversarla a qualunque costo. La grossa difficoltà era sempre guadagnarsi la loro fiducia. molti di loro arrivavano da centri di accoglienza nel Sud Italia, dai quali si erano allontanati volontariamente, per motivi di fatiscenza delle strutture, incompetenza degli operatori, mancanza di accesso a scuola di italiano, a mediatori culturali. Spesso gli operatori di alcuni Centri dicevano loro di aspettare la maggiore età per fare richiesta di asilo. Insomma, modi di accoglienza e di professionalità antitetici a quelli usati al Campo Cri di via Regina».


Il report include anche la storia di Tapha, giovane migrante passato da richiedente asilo a collaboratore del campo, originario del Gambia, elettrauto in Libia e poi profugo in Italia, dove è stato assunto dalla cooperativa Symplokè, una volta ottenuto il permesso di soggiorno.

«Potete immaginare la mia felicità quando ho ottenuto il riconoscimento. Io mi trovo bene in Italia, ho tanti amici e questo lavoro mi fa sentire utile. Lavoro sei ore al giorno, sei giorni alla settimana… e il tempo vola tra tante cose da fare. So di essere apprezzato dagli operatori e dai volontari che ogni giorno mi affiancano, e ciò mi rende orgoglioso».

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