Nell’eterno dibattito su come dovrebbe cambiare Como per ritrovare un’identità sempre più sbiadita – catapultata com’è dall’essere una tranquilla città di provincia a caput mundi del turismo mondiale – dopo le voci dell’architetto comasco Lorenza Ceruti e dell’imprenditore tessile, e anima di Orticolario, Moritz Mantero, si inserisce oggi il pensiero di Giuseppe Crosta, violinista di fama internazionale e direttore dell’Orchestra da camera comasca “Franz Terraneo” che, con una lunga riflessione inviata alla nostra redazione (integrale in fondo) da cui è nata questa intervista, prende una posizione sicuramente destinata a riaccendere i riflettori su questo tema vitale per la città.
Venticinque anni fa, in un suo intervento sul quotidiano cittadino La Provincia, aveva definito Como “Un anfiteatro sul nulla”. Come è cambiata oggi la città secondo lei?
Sicuramente in questi anni è cambiata moltissimo perdendo, innanzitutto, la sudditanza rispetto a Milano che si percepiva allora e divenendo più ospitale, capace di organizzarsi, legata a un lago che ha sbaragliato la concorrenza nel mondo diventando una delle mete più invidiabili e prestigiose. Però la sua trasformazione in città moderna, iniziata anni fa con grande lungimiranza, si è fermato a metà lasciando dei disastri.
A cosa si riferisce?
Alla straordinaria operazione fatta negli anni ’70 dal sindaco Antonio Spallino che tolse le auto dal centro storico con una lungimiranza rara per quei tempi. Fu un’opera moderna, e per molti versi profetica, ma che è rimasta incompiuta con le conseguenze che possiamo vedere, innanzitutto quella di identificazione della città con il solo centro monoclassista, isolata rispetto alle sue periferie ma anche rispetto all’hinterland che la guarda come raffigurazione di un’élite in cui non si riconosce.
E qual è secondo lei una possibile soluzione per allargare lo sguardo della città oltre le mura?
Per liberare il potenziale e fare un passo verso qualcosa di nuovo, le strade di solito sono due: il Risorgimento o la Secessione. Il primo si fa con l’unificazione, superando le barriere di Comuni e Comunelli intorno alla città che fanno solo male. La seconda invece si fa rompendo i rapporti.
Sembrerebbe l’idea del sindaco Alessandro Rapinese di “annettere” i Comuni limitrofi come San Fermo, Cernobbio e Brunate e il suo rifiuto di collaborare con altre città come Lecco o Varese in occasione del Natale. In un’epoca in cui la parola d’ordine sembra essere “sinergia”, il campanilismo non rischia di essere un boomerang?
Quelli che possono sembrare campanilismi un po’ campati in aria, secondo me, invece, sono un esperimento politico molto interessante. Credo che allargare la città fisicamente e culturalmente dagli attuali 90mila abitanti ai 200mila che potrebbe avere (il sogno di una big-Como con Brunate e Cernobbio cullato dal sindaco Rapinese, Ndr), dal punto di vista dello sviluppo culturale, sarebbe la strada migliore. E credo che l’attuale sindaco faccia bene anche a tentare di mettere ordine nell’omologazione disordinata a cui appartiene, ad esempio, l’idea natalizia dei quattro laghi. E poi sicuramente servirebbero figure illuminate a Roma che possano aiutare in questo processo di riconoscimento, come lo è stato Corrado Passera, ma non mi pare che il lavoro di chi finora ci ha rappresentati abbia avuto un ritorno per la città.
Nella sua riflessione, cito testualmente, lei parla di una “Città Murata che oggi è ridotta a un luogo sottoutilizzato di finta vivacità commerciale, chiusa dopo le 21, (che) può essere ridisegnata come cittadella della progettualità culturale artistica, luogo di laboratorio di letteratura, di pittura, di gallerie, di spazi per la musica, con affitti calmierati per favorire, come Berlino, l’insediamento di botteghe e di spazi culturali” e sottolinea anche l’importanza di creare collegamenti con l’hinterland, sfruttando quanto già esistente come la ferrovia.
Al tempo dei miei genitori, Como aveva tre teatri ma oggi una realtà così non sarebbe più pensabile, occorre dare un motivo alle persone per uscire di casa e stare insieme. E la città murata in questo potrebbe avere un ruolo chiave, ad esempio con residenze artistiche ma anche potenziando le infrastrutture. Non sono molte le città che possono vantare due stazioni ferroviarie che le collegano al cuore della Lombardia e all’Europa. E poi occorre un buon governo che possa restituire al capoluogo l’autorevolezza persa negli anni con scandali come quello della Ticosa, ad esempio.
Lei scrive anche che “una piccola città avrà una piccola dieta culturale, che non sarà qualche truccatore di museali ‘eventi’ a renderla opulenta. In tempi come i nostri, dove Van Gogh e Matisse espongono anche a Vergate sul Membro, il limite della cultura italiana in passerella è quello di nascondere la sua dimensione periferica, perché la cultura non è quello che si importa ma quello che si produce”. Dobbiamo tornare a produrre cultura a tutti i livelli, quindi?
Sì, a partire dalla cura di quello che abbiamo, ad esempio ideando uno spazio alla Ticosa che non dimentichi di valorizzare la basilica di Sant’Abbondio e il Cimitero Monumentale, ma anche valorizzando le forze locali. Noi l’abbiamo fatto e siamo riusciti dal nulla a costruire un’orchestra e, come tanti a Como, saremmo felici di dare il nostro contributo.
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QUI LA LETTERA COMPLETA DI BEPPE CROSTA INVIATA A COMOZERO
Temo che il quesito essere/non essere di Como, di cui leggo con interesse il recente dibattito, abbia a che fare con l’ideologia e con l’urbanistica molto più che con la capacità di desiderare. Si parta da un deficit che appare talmente evidente da non necessitare dimostrazioni: la percezione del quotidiano, la qualità della vita, del traffico, dell’aria ed alcune problematiche sociali di Como, sono quelle di una città media. Quando dico città media intendo una città di circa duecentomila abitanti, che possono fare la differenza tra un’area metropolitana e una cittadina in provincia di una provincia. Come venga interiorizzata questa percezione nella visione del mondo di novantamila abitanti è il fattore che determina il ruolo che la collettività di quel territorio assume nel mondo. La percezione dell’offerta culturale di Como è quella di una città al di sotto della media. L’esperienza e un lavoro da viaggiatore mi hanno dimostrato che l’ideologia della appartenenza urbana è cosa diversa dalla dimensione urbana di ciò che si abita. Non mi riferisco alle tifoserie calcistiche che, superato lo stupore per le profondità microcefale che gli umani possono raggiungere, meritano comunque di essere studiate come supplenti di un’identità comunale nell’omologazione globalista.
Ci sono milanesi convinti di abitare a New York, ci sono romani che sembrano calati in una realtà popolata di gabbiani e di cinghiali, ci sono lecchesi pronti a una competizione con Como e ci sono comaschi che non sanno dove sia il conservatorio. Il privato e il collettivo giocano stupefacenti scherzi caleidoscopici. Nelle nazioni imperiali, come Stati uniti, Russia e Cina, l’abitante della grande città è iscritto in un tacito albo di appartenenza a una razza superiore, anche se le metropoli sono spesso semplici agglomerati di villaggi. La storia moderna di Como, quella che sembra irrimediabilmente ripiegata sul diminutivo aggettivale dei suoi impressionanti primati, è storia di un centro animato da una profonda identità di città e tuttavia amputato di alcuni organi che costituiscono una città. Nella sua lontana ricostituzione romana, Como non era un rurale grappoletto di castellanze come Varese, e non ha conosciuto la metamorfosi da mercato rurale come molti centri della pianura padana (stavo per dire della Padania, ma qui non ragioniamo di luoghi immaginari …).ù
Il suo essere da sempre centro e il suo essere da sempre città è ancora oggi l’impronta incancellabile della sua forma. Attorno a questa forma però, il tempo ha lavorato con inedita fantasia, rispetto al tradizionale organismo urbano fatto di corpo centrale e diramazioni periferiche. Como non ha una periferia nord. L’ingresso nei paradisi del primo bacino lacustre sulle due sponde avviene senza soluzione di continuità da Blevio e da Cernobbio, e nella percezione ideologica degli sparuti abitanti di quei due bellissimi borghi … Como è completamente altro. Sarebbe lungo ma interessante studiare come lo sviluppo storico abbia portato a una percezione del territorio comasco così rigidamente settoriale. Sappiamo bene che l’idea di Milano che ognuno di noi ricrea si estende ben oltre gli angusti confini comunali della Milano vera e propria. Quando lo studio Ambrosetti riuniva le potenze economiche del mondo a 14 Km da Milano, i mezzi di informazione riportavano i congressi di Milano Lacchiarella. Ora che Ambrosetti porta i grandi della terra a 14 cm da Como, si parla di Cernobbio facendo bene attenzione a non nominare il territorio confinante, un tantino più significativo sul piano storico artistico e mi pare anche societario nel grandioso volano di immagine del Lario.
Como non ha una periferia nord, ma ne ha altre tre, soprattutto a sud, che evidentemente non riescono a entrare nell’ideologia degli urbanisti, dei cantori del rinnovamento, dei poeti del sognante, dei cantastorie della “misura d’uomo” … Tutti costoro, passando da quelle parti, cercano di uscirne il più presto possibile, tirando le tendine come facevano una volta le dame sulle carrozze partite da villa Geno e dirette alla Scala, non senza avere prima alzato i finestrini per non dover sopportare i miasmi. La periferia è il grande tabù dell’ideologia comasca. Ci si ricorda di quella dimensione come del lato oscuro dell’anima, quando viene ammazzato un prete o ci si perde in un ipermercato che avrebbe potuto ospitare il CERN. Si va in periferia a comprare roba da mangiare e la sera si va in centro a comprare roba da bere. Bilancio esistenziale abbastanza arido in uno dei luoghi di cui l’Italia potrebbe andare fiera non solo per le fortune paesaggistiche. La coerenza politica del sindaco Spallino ha inaugurato a mio parere proprio qui quel processo, giunto fino alla capitale, di sostituzione perfino semantica del concetto di città con il centro, al quale ha finito per credere anche la sinistra fino alla sua inesorabile ma problematica estinzione. Dov’è la contraddizione? Se vivi dentro una complessità problematica reale ma non ti dai gli strumenti culturali e artistici per interpretarla, il tuo bilancio reale, non quello comunale, il tuo bilancio fatto di spesa- ricavo – guadagno di città, di capoluogo, di centro turistico primario, è in perdita. Vivi della città solo gli aspetti negativi e non hai la forza di migliorare la tua condizione, perché gran parte del tuo corpo è ammalato o non ha collegamenti neuro sensibili con l’organo che tu hai eletto a unico percettore di senso. Difficile su questo punto convincere l’idraulico che avere novantamila abitanti o duecentomila può fare una bella differenza. Per l’artista, lo studente universitario, ma anche per il bisognoso di cure e il bibliotecario, il concetto è ovvio. Purtroppo, non si tratta solo di capire che la cultura, dopo la de-industrializzazione dell’economia italiana, non è più la sovrastruttura della teoria marxista.
Collegata e integrata in modo intelligente con il tessuto industriale e di ricerca, la cultura è la possibile nuova fonte di produzione di ricchezza, e comprendere ciò costituisce già un bel passo avanti. Si tratta però di mettere a disposizione della cultura urbana una sinergia territoriale che a Como è pervicacemente negata. la nuova Como, in ossequio al modello di sviluppo milanese, si deve allargare inglobando fisicamente e culturalmente il suo Hinterland da città di duecentomila abitanti, ma bisogna vedere se i venti o trenta comunelli limitrofi, peraltro lussuosamente costosi per le tasche dei contribuenti, sono d’accordo. Così ha fatto Tokamachi, la gemella di Como in Giappone, e così ha fatto Lugano. Solo in quel caso, la Città Murata, che oggi è ridotta a un luogo sottoutilizzato di finta vivacità commerciale, chiusa dopo le 21, può essere ridisegnata come cittadella della progettualità culturale artistica, luogo di laboratorio di letteratura, di pittura, di gallerie, di spazi per la musica, con affitti calmierati per favorire, come Berlino, l’insediamento di botteghe e di spazi culturali. Una sorta di Bergamo alta, ma con possibilità che vedo più ampie di affermazione mondiale, realizzabile anche grazie a un avanzatissimo sistema di trasporto su rotaia concepito nell’Ottocento che, se fosse coordinato con il trasporto su gomma, darebbe a Como il primato di una metro leggera già pronta, capace di tenere automobili in garage e di intensificare collegamenti comodi ed ecologici da Fino Mornasco a Brunate.
Il costo che la cultura richiede, a cominciare da una presenza fondamentale per valorizzare la vita delle persone e quella della città come è un’orchestra, il costo dei progetti e delle realizzazioni, perfino la ragione d’essere di una serie di voci che rappresentino l’universo delle culture, necessitano di spalle abbastanza forti per alimentare e l‘alimentarsi di tale organismo. Una piccola città avrà una piccola dieta culturale, che non sarà qualche truccatore di museali “eventi” a rendere opulenta. In tempi come i nostri, dove Van Gogh e Matisse espongono anche a Vergate sul Membro, il limite della cultura italiana in passerella è quello di nascondere la sua dimensione periferica, perché la cultura non è quello che si importa ma quello che si produce. A vanto di Como, va notata la stupefacente capacità di questa città di essere arrivata non solo viva ma per certi aspetti rinnovata al traguardo del terzo millennio e il merito di questo va tutto alla genialità e alla coraggiosa tenacia degli uomini e delle donne che, contro tutto ciò che qualcuno ha voluto imprigionare dentro una dimensione provinciale senza mai riuscirvi definitivamente, proclamano nei fatti la forma e l’anima di un centro. Un centro che è nato per essere centro e che deve recuperare un rapporto con la sua ben più vasta periferia, la sola coesione capace di riportarlo a una grandezza proporzionata e coordinata tra dimensione reale e dimensione ideale.
Prof. Beppe Crosta Direttore dell’Orchestra da camera di Como FRANZ TERRANEO
3 Commenti
Novanta righe di sofisticate analisi sociologiche, di concetti che si vorrebbe “intelligenti”, “arditi” e “alti”, di paroloni e locuzioni vorticose da intellettuale (la percezione dell’offerta culturale, le profondità microcefale come supplenti di un’identità comunale nell’omologazione globalista, il privato e il collettivo che giocano stupefacenti scherzi caleidoscopici, la sostituzione semantica del concetto di città con il centro, ecc.) per poi atterrare, dopo il volo pindarico, a Vergate sul Membro. Tutto per incoraggiare le mire espansionistiche di Rapinese…
Questo parallelo tra la qualità e la quantità lo trovo sbagliato.
Anzi, dirò di più. Credo che la periferia posticcia di Como, avrebbe più senso e attenzione se amministrata da comuni come Lipomo, San Fermo della Battaglia, Cernobbio, Grandate.
Ci sono bacini territoriali di 500mila abitanti, con una viabilità leggera, con servizi diffusi che possono organizzare, attrarre e riempire cartelloni, stadi, teatri e cinema appunto perchè vivaci e capaci.
E questo non dipende dalla dimensione del comune capoluogo ma dalla capacità di fare rete del capoluogo e dalla forza di quelle realtà che animano la vita culturale e sociale di una comunità che va oltre la dimensione del comune.
Infatti andiamo a Milano e Lugano, quando troviamo proposte che valgano la pena, così come disertiamo quelle di Como quando non ci interessano.
Como ha un nome non per la dimensione della sua popolazione e nemmeno per la bravura del sindaco. La notorietà dipende dal suo lago e dal patrimonio storico paesaggistico cui si sta associando anche una ospitalità e una ristorazione in crescita.
Questi ragionamenti, che tentano di suggestionare, sono delle trovate. Il pifferaio suona il piffero e qualcuno segue.
La grande Como è una grande panzana.
Mah, magari come violinista sarà anche bravo…