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“Soft Como, la città dolce senza l’auto al centro”: un libro e due architetti per una vita più umana, tutti i giorni

In un momento di grande fermento per la città di Como – tra le incertezze sul nuovo stadio, il futuro incerto dell’area Ticosa, l’eterno spreco di Viale Varese, il traffico e il crescente afflusso di turisti – arriva in Italia un libro che potrebbe diventare un punto di riferimento per amministratori, progettisti e cittadini consapevoli: Città dolce. Densità, diversità e prossimità nella vita di tutti i giorni (ed. Lettera Ventidue), traduzione italiana dell’originale Soft City dell’urbanista scozzese David Sim, ex direttore creativo dello studio Gehl Architects di Copenhagen, ad opera dell’architetto comasco Sergio Beretta, voce sempre pungente e lucida nel dibattito urbano locale.

Quello che, però, a prima vista potrebbe sembrare un semplice trattato di urbanistica, in realtà è un vero e proprio manifesto per città più umane, semplici, vicine ai bisogni reali delle persone. Un invito a ripensare lo spazio urbano come tessuto vivo, stratificato, sensoriale e sociale. Il libro ha già conosciuto un ampio successo internazionale, con oltre 25 traduzioni, ma l’edizione italiana ha qualcosa in più: è il frutto di un lavoro personale, attento e appassionato, portato avanti da Beretta quasi per “affinità elettiva” con il pensiero di Sim.

E se, come racconta lo stesso autore, è proprio a Como che ha comprato la sua prima moka Bialetti, fatto colazione al bar e bevuto il suo primo aperitivo in piazza, questa traduzione rappresenta forse la chiusura simbolica di un cerchio: una città dolce che, finalmente, potrebbe tornare a pensarsi tale. Ne abbiamo parlato proprio con l’architetto Beretta.

Come nasce questa traduzione?
Conosco Sim dal 2014 e, quando nel 2019 è uscito Soft City, gli scrissi subito: “Questo libro lo traduco io”. Sembrava quasi una battuta, ma lo sentivo davvero. Non essendo traduttore di professione, mi sono preso il tempo necessario per farlo bene: la prima bozza l’ho completata nell’agosto 2022. Poi ho lavorato sulle grafiche, italianizzando tutto: nomi dei negozi, insegne, bus che diventano ATM e stazioni FS, università, perfino le destinazioni dei mezzi pubblici. Volevo che avesse senso per un lettore italiano.

David Sim

Che libro è Città dolce?
È un libro tecnico, senza essere tecnico. Parla di come si costruisce una città a misura d’uomo, dove tutti i sensi sono coinvolti. Spiega come ci si muove, come si vive, come si interagisce con l’ambiente. È molto concreto. Ti fa capire, per esempio, perché il concetto di senso unico non funziona – vedi il girone di Como – o perché il sottopasso pedonale è davvero l’ultima cosa da prendere in considerazione.

Densità, diversità, prossimità: quanto sono attuali questi temi per Como?

Molto. Il problema è che noi continuiamo a ragionare con l’auto al centro di tutto mentre, ad esempio, Città dolce dedica un intero capitolo al concetto di “marciapiede continuo”: nelle strade principali, dovrebbe essere l’auto a superare il marciapiede, non il contrario. Questo permetterebbe alle persone di camminare senza ostacoli e risparmiare tempo. Ma qui il trasporto pubblico fa acqua e le aree in trasformazione vengono trattate come comparti stagni. Il libro lo dice chiaramente: più la città è permeabile, più funziona, non solo economicamente, ma anche socialmente. Se isoli, tagli fuori. Via Volta, ad esempio, non è viva perché un muro continuo: nessuno ci passa, perché non succede nulla, è impermeabile.

Sergio Beretta

Altri esempi comaschi?
L’area dello stadio, certo. Ho anche scritto una proposta su questo: se vuoi creare uno spazio urbano vivo, deve essere aperto, accessibile, attraversabile. Oppure il Politeama: aveva una parte di facciata “dolce”, con attività. Tutto il resto era un muro chiuso. Bucatelo tutto. Fate lavorare il piano terra H24. Se no resta un vuoto urbano.

E Viale Varese?
Altro esempio clamoroso. I chioschi guardano il parcheggio e la strada, non chi cammina lungo le mura. Ignorano del tutto chi si muove a piedi, che è il vero fruitore dello spazio urbano. È un’idea di città sbagliata. Servono apertura e stratificazione, non separazione.

Ma avere “vita” ovunque non rischia di far diventare la città invivibile per i residenti?
Nessuno vuole la movida a tutte le ore. Il punto è non concentrare tutto in pochi luoghi e lasciare il resto morto. Serve distribuzione. Se mescoli le funzioni, se lavori sulla prossimità, la città funziona durante tutta la giornata. I picchi si riducono, la vita si spalma e la città diventa più vivibile, non il contrario.

Se dovessi riassumere in una frase l’importanza del libro, quale sarebbe?
È un libro che rende le persone più consapevoli di ciò che accade attorno a loro, di quello che sarebbe possibile fare. E di quello che altri decidono al posto loro.

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