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Dogman: l’antieroe di Garrone è un miserabile, destinato alla solitudine

Un rottweiler bianco – i suoi denti aguzzi in primo piano – legato, abbaia ferocemente verso il dogman del titolo, Marcello, che cerca lo stesso amorevolmente di lavarlo e asciugarlo. E’ quasi una scena comica, quella che apre Dogman di Matteo Garrone.

Siamo ancora al famigerato Villaggio Coppola di Castel Volturno, un agglomerato urbano nato dalla speculazione e dall’abuso edilizio, che sembra l’ultimo argine prima dell’inferno in terra. E’ un non luogo, uno spazio neutro, abitato, ma inabitabile al contempo.

Qui vive e lavora una piccola comunità chiusa e solidale, che ruota attorno ad una sala slot, ad un compro oro e al riparo per i cani.
Come in una grande famiglia si ritrovano a pranzo nella trattoria della piazza. Su tutti spadroneggia però il burbero gigante Simone, un ex pugile col naso rotto, che passa il suo tempo tra furti, violenze e cocaina.

Marcello e gli altri ne subiscono le angherie e gli scatti d’ira, cercando di tenerlo buono.

E’ un’illusione, perchè Simone è un corpo inarrestabile, una montagna in continuo movimento, sulla sua moto rombante. Marcello più degli altri, cerca di trovare un modo per sopravvivere alle sue bravate. Lo aiuta facendo da palo ai suoi colpi, gli procura le dosi, lo salva da un agguato, riportandolo a casa dalla madre, disperata.

E’ tutto inutile, perché quando Simone decide di rapinare il compro oro gestito da Franco, passando proprio dal negozio di Marcello, il canaro non riesce a fermarlo e finisce nei guai. Garrone ritorna sui luoghi e le atmosfere del suo capolavoro, L’imbalsamatore, raccontando un’altra delle sue favole nere, dopo le parentesi più leggere, ma non meno amare di Reality e e Il racconto dei racconti.

Dogman, illuminato da Nicolaj Bruel, con tonalità che tendono sempre al grigio, al chiaroscuro, sfruttando alla perfezione un set naturale da giostra dell’orrore, è un film di conflitti essenziali, primari, in cui buoni e cattivi non potrebbero essere più chiari, sin dalla prima scena, che è quasi una sineddoche dell’intero film.

Marcello si illude di poter tenere a bada Simone, come fa con i suoi cani più aggressivi, ma la sua bestialità malvagia sembra non avere limiti. Non è un caso che Marcello cerchi sott’acqua una via di fuga a quella bruttezza, caricandosi nella vita di un peso e di una capacità di tollerare l’ingiustizia e la sofferenza, fuori dal comune.

Ma, nonostante tutto, pian piano il male corrompe anche quegli scampoli di umanità, che il piccolo microcosmo sociale degradato e devastato era riuscito a far sopravvivere.

Dogman di Garrone è un film sulla condizione umana, sulla marginalità senza riscatto di una parte sempre più grande del paese. Che Italia è quella di Marcello e Simone? Sembra una landa desolata, devastata dalla guerra, in cui l’umanità minima è svilita e violentata. E’ il crogiolo forse di quelle spinte egoiste e sovraniste che si sono insinuate come un virus nella nostra democrazia.

Il senso di appartenenza ad una comunità nella quale essere riconosciuti e apprezzati è quello che consente a Marcello di sopravvivere a quell’incubo ad occhi aperti. Perduto quello, ecco che tutto il suo piccolo mondo finisce per crollargli addosso. Neanche le immersioni subacquee con la figlia riescono a dargli pace.

C’è un che di tribale e arcaico, che pervade il microcosmo di Dogman: l’assenza di misericordia, l’abbandono, il valore del sangue, la pervasività del male, nella miseria più nera, morale e materiale.

L’antieroe di Garrone è un altro miserabile, destinato alla solitudine.

La spirale dell’orrore finisce per travolgerlo, fino alle conseguenze più estreme. Non basta un tragico sacrificio rituale a consentirgli di essere riammesso nel consesso civile. Tradita la sua comunità, è diventato un paria, come Simone, un uomo solo, abbandonato da tutti. Tenta disperatamente di farsi notare, trascinando sulle sue piccole spalle il corpo enorme di Simone, ma nessuno sembra interessarsi più a lui, tutto tace. Non c’è riscatto, nessuna morale.

Il lavoro di Garrone è, soprattutto nella prima parte, un ritratto impietoso, potente, completamente immersivo, che gioca sulla dualità dei caratteri e degli elementi, capaci di produrre una tensione narrativa opprimente. Eppure il tono del suo film è chiaramente debitore anche di una dimensione comica, capace di produrre uno straniamento ulteriore.

Marcello è un personaggio quasi chapliniano, con la sua innocenza impacciata, la sua voce da cartoon, i suoi modi affettuosi verso gli animali. Il film è pieno di momenti di ironica tenerezza, sin dalla prima scena che abbiamo ricordato, passando per la rianimazione del cane, finito nel congelatore, la condivisione del piatto di pasta, l’abbraccio interessato alla madre di Simone, per occultare il recupero della coca, fino al buco nel muro che sembra uscito dai soliti ignoti.

Dopo aver costruito così un piccolo universo narrativo efficacissimo e allegorico, che spiazza le attese ed in cui le rovine morali e personali si rispecchiano in un contesto paesaggistico e architettonico altrettanto degradato, al film manca però un po’ di mordente.

Nella seconda parte, Dogman non sembra affondare il colpo davvero, rimanendo improvvisamente indeciso se mostrarci la trasformazione di Marcello o se descriverlo come un uomo travolto da un destino più grande di lui. La vendetta del protagonista non è tanto una rivolta catartica e necessaria – da quel mondo ai margini non si può uscire in alcun modo – quanto il tentativo impossibile e fatuo di redimersi, di ritrovare la sua identità, di fare in modo che gli altri la riconoscano.

Ispirandosi all’efferato e brutale omicidio del Canaro della Magliana, che alla fine degli anni ’80 sconvolse la cronaca nera nazionale, il film di Garrone sembra volersi distanziare radicalmente da quello spunto realistico, ricostruendo un racconto profondamente personale, ambientato in un presente, che sembra uno spazio fuori dal tempo, con due volti antichi che non si dimenticano, regalandoci così un’altra delle sue amarissime favole moderne.

DOGMAN
REGIA: Matteo Garrone
ATTORI: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Adamo Dionisi
Produzione: Italia, 2018
Durata: 120 minuti

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