Non esiste più – se mai è esistito – un popolo politico italiano inteso come una comunità che pur articolata tra grandi partiti e scuole di pensiero anche radicalmente opposte, nel suo complesso tende naturalmente, forse persino inconsciamente, verso un bene comune collettivo, di Paese.
La distruzione di ogni spazio di riflessione politica di ampio respiro, a partire proprio dai partiti tradizionali con il crollo dei vasti sistemi ideologici, e il degrado degli orizzonti di sistema polverizzati nella selva di post, tweet, insulti e slogan, ha sminuzzato il tessuto sociale e morale di questo Paese.
L’Italia politica – forse già regredita a uno stadio prepolitico – ormai è formata o da improvvisate accozzaglie disomogenee regolate da improbabili contratti a scadenza, oppure da recinti autonomi e incomunicanti, alimentati da rancori, sospetti, accuse violente verso nemici (e non avversari) da ridicolizzare, “demolire”, “distruggere”, “annientare”. Fate un giro tra le bacheche social di qualche leader politico romano o comasco: con rare eccezioni troverete meme, video arruffapopolo, santini e sloganacci di quart’ordine, nulla più. Una pena tossica.
Il lessico della neopolitica da social cancella ogni possibilità di analisi e di riflessione, rimbalzando senza sosta dal profilo del politico a quello del cittadino e viceversa, alimentando così una mediocre figura unica e indifferenziata, in una parità illusoria e spesso volgare tra eletti ed elettori. Unico risultato: specchiare un Paese balcanizzato e incattivito in assemblee balcanizzate e incattivite, in una spirale che scivola sempre più in basso, si impoverisce di concetti e di profondità e trova un punto di caduta non nell’uno che vale uno bensì nel tutti che valgono poco.
Trionfano quindi schemi di pensiero elementari, radicali, blindati e autoconclusi, grazie a cui cade ogni distinzione tra boutade da tinello e oratoria istituzionale: spazi equivalenti, linguaggi equivalenti, obiettivi equivalenti. Unico obiettivo condiviso, ai fornelli come alla Camera: saziare l’istinto a suon di battute e coup de théâtre.
Non può sorprendere, dunque, che al politico di oggi – che va verso il popolo solo per lusingarne i più bassi istinti – sfugga ogni reale comprensione dei grandi temi e delle grandi sfide. E se sfugge la comprensione, figuriamoci la soluzione.
Questo è probabilmente il frutto di uno tsunami deteriore di lunga durata, iniziato con il primo feroce Berlusconismo, culminato nella politica senza respiro né visione dei Vaffa anti kasta e delle scatolette di tonno, infine articolato oggi nei sovranismi e populismi in cui i pensatori di riferimento (che parlano a milioni di italiani ogni giorno, senza sosta) si chiamano Morisi e Casalino, e la Costituzione sta tutta in un cinguettio.
Nella grande maggioranza dei politici – da Roma a Como – non c’è più alcun tentativo di stimolare un pensiero pubblico, di indicare strade maestre, di disegnare linee di forza che impegnino tempo e fatica. C’è l’affannosa, costante, ininterrotta ricerca dell’attimo e del ventre dell’elettore, della pulsione animalesca, del doping da gratifica immediata.
Tutto questo si riflette nel Parlamento ma sempre più anche nei consigli comunali, Como inclusa, organi ridotti ad arcipelaghi di isole autosufficienti, abitate da tribù nello stesso tempo insufficienti a tutto ma pronte a tutto. E quindi è qui, sulla cresta di questa schiuma, che la mossa narcisistica del fantasista, anche se fine a se stessa o puramente demolitoria, può venire celebrata e omaggiata come fosse la prodezza del fuoriclasse. Basta essere diversi, che non significa migliori, e si passa per geniali: è facilissimo, nel grigiore assoluto.
E’ qui, in questa Italia e in questa Como di cui sono ormai ignoti pensieri di struttura e strategie di lunga gittata delle classi dirigenti, con orizzonti che si aprono e si chiudono come pagine Facebook, che si brinda e si esulta perché la politica, o forse meglio l’apolitica, per l’ennesima volta in pochi anni a Roma accoltella se stessa e la sua paurosa autoreferenzialità per consegnarsi cadavere all’uomo forte. Al marziano che aggiusta tutto.
Una figura, questa, che ormai ciclicamente si presenta come l’unica amara medicina possibile per strappare l’Italia dallo sfascio ma che in realtà alimenta o l’ulteriore allontanamento dei cittadini da un circo vittima dei suoi fallimenti, oppure spinge l’ulteriore chiusura della superstite militanza radicale nei propri recinti di caccia.
Un vortice mostruoso che può condurre a due sole soluzioni: stimolare un azzeramento delle classi (non) dirigenti a favore di generazioni nuove – a livello nazionale e locale – che siano almeno radicalmente più preparate intellettualmente e tecnicamente; oppure, in assenza di partiti, coalizioni e aspiranti premier o sindaci con visione, sapere, tecnica e prospettiva, consegnare prima o poi il Paese, e chissà forse pure la stessa città di Como, all’uomo forte sul serio. Quello che prima ti abbraccia muscoloso, poi stritola tutto e lascia macerie.
2 Commenti
Pezzo che meriterebbe la spalla della prima di un quotidiano nazionale. Complimenti a Emanuele Caso.
Splendido articolo. Complimenti! ?