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“Bruciava l’officina, vedevo il diavolo”. Fragile e forte, Vincenzo che ha sconfitto la ‘ndrangheta

Una settimana di riflessione silenziosa. Poi quella molla che scatta, il coraggio ritrovato e la forza di denunciare. Una sola denuncia per potersi riappropriare della propria vita. Di 10 anni da incubo. Il resto è pura cronaca: un sistema estorsivo che crolla inesorabilmente. Le indagini. Poi il processo. La ’ndrangheta isolata, sconfitta.

Vincenzo Francomano, imprenditore di Villa Guardia, 59 anni, non è un eroe ma l’esempio di un’umanità testarda, fragile e forte allo stesso tempo.

Nelle pieghe del suo volto i solchi di un viaggio all’inferno e ritorno. Iniziato quel maledetto giorno in cui decise di aiutare Giuseppe Oliverio – “Pino il gommista” – poi finito agli arresti .  Oggi Francomano è un uomo libero, libero dalla paura. Libero di raccontare la sua storia. E lo ha fatto durante una serata organizzata in biblioteca, promossa dall’associazione “Oltre” e da “Libera”, dal titolo “Sotto i nostri occhi”.

“La mia carrozzeria ‘Formula 1’ è nata nel 1981 – ricorda Francomano – Allora ero un ragazzo, avevo 19 anni. Ho conosciuto Oliverio nel 1999: aveva un’officina a Olgiate Comasco”.
Un rapporto di lavoro come tanti. “Mi ha fatto una buona impressione e ci sapeva davvero fare. Per oltre un anno abbiamo collaborato: lui mi mandava qualche auto da riparare e io mi appoggiavo a lui per le convergenze. Finché il suo modo di fare è cambiato. E’ diventato aggressivo e ho preferito chiudere il rapporto. Non ho più saputo nulla di lui fino a quando non ho appreso che era stato arrestato per traffico di droga”.

La quiete prima della tempesta. Nel 2006, infatti, Oliverio si presenta nuovamente da Francomano che, allora, aveva la sua officina in via Repubblica a Lurate Caccivio.
“Mi ha salutato come se fossimo vecchi amici. Cercava lavoro. Mi ha giurato di aver cambiato vita e ho voluto dargli fiducia. Avevo anche un capannone a Villa Guardia, dove adesso ho l’attività, e gli ho proposto di aprire un centro gomme. Non eravamo soci, aveva la partita Iva ed è sempre stato un collaboratore. Io ero l’unico titolare”.

La firma di un leasing di 200mila euro perché, su spinta di “Pino il gommista”, Francomano ha affiancato alla nuova attività anche un centro per le revisioni. “Mi sono detto: perché non dovrebbe funzionare? Il giorno stesso dell’apertura, da agnello si è trasformato in un lupo. Trattava l’attività come se fosse sua anche se non ci ha mai messo un soldo. Il giro di clienti era buono e gli incassi anche”.

Che qualcosa non stesse andando per il verso giusto, però, era nell’aria. “Tutte le sere prendevo i soldi e andavo a versare. Pagavo i dipendenti e le fatture. Peccato che si andava sempre in pari, non c’era utile. Oliverio calcolava tutto al centesimo per coprire le spese e il resto lo intascava”. Una situazione sempre più complessa e difficile.

“Ho provato a parlare con lui, gli ho spiegato che se fossimo andati avanti così avrei dovuto chiudere: mi ha minacciato di spezzarmi le gambe. Avevo tre figli piccoli, cosa potevo fare? Ho quindi deciso di cedergli un ramo d’azienda”.
Oliverio avrebbe dovuto versare 2.500 euro al mese per poter andare avanti con l’attività. “Per i primi tempi tutto ha funzionato. In seguito ha cominciato a non pagarmi e ho deciso di dargli lo sfratto”.
Poi, il 14 maggio 2012, un incendio nell’officina di Francomano, sulla Varesina con 14 autovetture bruciate. “Nelle fiamme ho visto la sua faccia, la faccia del diavolo. Mio figlio ancora non riesce a dormire da solo”.
La paura. La decisione di fermare lo sfratto e il tentativo di vendere a una cifra irrisoria. “Mi ha fatto una controproposta ancora più bassa che non potevo accettare. Ho bloccato tutto: a quel punto mi ha chiesto 50mila euro dicendo che aveva fatto degli investimenti e comprato materiale”.

Estorsione. “Pregavo che lo mettessero in galera. Quando ho saputo che c’erano stati degli arresti per ’ndrangheta, il 14 marzo 2014, ho deciso di parlare. Ho raccontato tutto. E’ stata una decisione difficile e sofferta ma ho avuto l’appoggio della mia famiglia”.
Una settimana per uscire da quell’inferno. “Alla fine, quello stesso anno, sono riuscito a rientrare in possesso del mio capannone quello stesso anno. Avevano rubato tutto: le porte, gli impianti elettrici. Anche i fili della corrente. Ora potrei dire che sto bene ma non sarebbe vero. I segni di questa esperienza non si possono cancellare. La ’ndrangheta c’è ed è radicata anche qui e denunciare è l’unica possibilità”.

L’articolo che avete appena letto è stato pubblicato su ComoZero settimanale (nuovo numero in distribuzione ogni venerdì e sabato in tutta la città: qui la mappa dei totem.)

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