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Stesso nome della serie Netflix ma stavolta la Casa di Carta è una truffa da 13 milioni e 19 arresti

Maxi truffa ai danni dello Stato per milioni di euro da parte di un sodalizio criminale che riusciva a ottenere dagli istituti di credito finanziamenti garantiti dallo Stato stesso. Un modus operandi che non lasciava nulla al caso e che prevedeva anche delle vere messe in scena, come al cinema, da creare a beneficio degli eventuali ispettori con dipendenti falsi e capannoni affittati per l’occasione.

Alle prime luci dell’alba di oggi 5 novembre le fiamme gialle del comando provinciale di Como hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Monza nei confronti di 19 persone di cui 7 sono finite in carcere, 7 ai domiciliari e 5 sottoposti all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nell’ambito dell’indagine denominata “Casa di carta” che ha riguardato un’associazione a delinquere dedita alle frodi ai danni dello Stato.

Le indagini
Le indagini, coordinate dal P.M. Michele Trianni, sono iniziate nel 2023 durante l’approfondimento di alcune operazioni finanziarie ritenute sospette da parte degli amministratori di una società monzese, già coinvolti in procedimenti penali per condotte fallimentari e truffaldine.

Si è scoperto come la società fosse effettivamente alla mercé di un vero e proprio sodalizio criminale dedito alla commissione di reati fallimentari, frodi fiscali e truffe che aveva stabilito la propria base operativa in un capannone di Cinisello Balsamo (Milano), affittato a un’azienda neo costituita attiva nel settore della telefonia e intestata a un prestanome. Osservando i movimenti presso l’immobile brianzolo, sono stati identificati diversi soggetti e ricostruite le reti di affari, che giravano intorno ad alcune società su cui poi si sono concentrate le indagini dei finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Como.

Venivano quindi fatte analisi mirate sui bilanci societari, sui conti correnti e anche attività di intercettazioni telefoniche e neii luoghi dove si svolgevano gli incontri “d’affari” del sodalizio. Così è stato ricostruito il modus operandi ideato per ottenere dagli Istituti di credito finanziamenti garantiti dallo Stato attraverso il Fondo di garanzia gestito da Mediocredito Centrale S.p.A.

Il modus operandi
In sintesi, lo schema di frode prevedeva questi step. Come prima cosa individuavano le società attraverso cui chiedere il finanziamento, privilegiando quelle costituite da qualche anno che non avessero subito dei controlli dal fisco. Si trattava di aziende attive prevalentemente nei settori del commercio all’ingrosso di polimeri, carta, cartone e delle apparecchiature informatiche con sedi fittizie a Milano, Brescia, Bologna e Venezia.

Subito dopo acquistavano le quote delle stesse attraverso prestanome di fiducia. Si passava poi alla falsificazione dei bilanci, grazie all’aiuto di un professionista compiacente che alterava i dati contabili e di bilancio facendo figurare una falsa ricapitalizzazione mediante aumenti del capitale sociale del tutto inventati, in modo che l’azienda potesse apparire solida e in grado di restituire il finanziamento che sarebbe stato chiesto alle banche.

Dopo questo maquillage contabile, la società di turno era pronta per presentare la domanda di finanziamento garantito, nella misura dell’80%, all’Istituto di Credito prescelto, con la complicità di un’agenzia finanziaria che lavorava nella città di Brescia in regime monomandatario e che si occupava di istruire la pratica in modo da agevolare la successiva istruttoria della Banca incassando, per questa intermediazione illecita, una percentuale sugli importi erogati.

Le messe in scena: come in un film

In questa fase l’Istituto di credito, oltre agli adempimenti burocratici, poteva decidere di inviare presso le sedi aziendali alcuni funzionari per effettuare sopralluoghi e ispezioni. In alcuni casi, il sodalizio organizzava vere e proprie messe in scena provvedendo, ad esempio, a tinteggiare il cancello del capannone affittato per l’occasione, mettere una targa con il nome, portare sul posto dei macchinari e arruolare falsi operai da presentare quali dipendenti dell’azienda. Il capo del sodalizio e il suo braccio destro definivano questa attività di falsa rappresentazione come un vero e proprio “cinema” da creare a beneficio degli eventuali ispettori.

La pratica di finanziamento veniva presentata dalla Banca a Mediocredito Centrale S.p.A. che deliberava l’ammissione alla garanzia pubblica. Consentiva così all’Istituto di credito l’erogazione della somma richiesta, accreditandola sui conti correnti delle società in mano al sodalizio. Subito dopo l’accredito, i soldi venivano impiegati in minima parte per pagare i costi “fissi” (ad esempio le rate di precedenti finanziamenti erogati ad altre società fantoccio che bisognava onorare per non far saltare le truffe in corso, sulla falsa riga dello schema Ponzi), mentre la maggior parte era spesa per esigenze personali (come l’acquisto di auto di grossa cilindrata e camper) o drenata con varie modalità.

In particolare, il denaro era prelevato in contanti e movimentato a mezzo di “spalloni” oppure bonificato sui conti correnti intestati a prestanome o società italiane (prevalentemente ditte cinesi ma con conti in Danimarca, Belgio e Germania riconducibili agli associati) ed estere (ubicate in Repubblica Ceca) a pagamento di operazioni commerciali simulate, coperte da false fatture.

I conti svuotati
Svuotando i conti correnti sociali, capitava che non ci fosse liquidità sufficiente per pagare alla Banca neppure le prime rate del prestito. Così, per prendere tempo e ottenere una moratoria sui pagamenti, il capo del sodalizio istruiva i suoi prestanome in vista del colloquio con i funzionari bancari, simulando situazioni di difficoltà finanziaria. In un caso, prima di entrare in Banca, il capo dettava alla sua testa di legno la linea da tenere con l’impiegato, al quale sarebbe stato raccontato che i mancati pagamenti delle rate erano da addebitarsi a inadempienze dei fornitori dovute ai disagi creati dall’alluvione nel modenese del 2023.
Nel corso delle indagini la Procura della Repubblica di Monza attuava un efficace coordinamento investigativo con la Procura della Repubblica di Brescia, favorendo una proficua sinergia operativa tra il Nucleo PEF Como e quello di Brescia che stava procedendo, su un filone parallelo, nei confronti del medesimo agente finanziario operante in quel capoluogo.

Arresti e misure cautelari
Al termine delle investigazioni il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Monza, su richiesta della locale Procura della Repubblica, ha disposto le misure cautelari nei confronti di 19 soggetti ritenuti responsabili, in concorso, dei reati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, riciclaggio e auto riciclaggio con l’aggravante prevista per i reati transnazionali.

È stato disposto anche il sequestro preventivo diretto e per equivalente dei beni riconducibili agli indagati fino a concorrenza di 13,8 milioni di euro quale profitto dei reati contestati.

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