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CINEMA “Un sogno chiamato Florida”: tra i resti dell’american dream corrotto e avvelenato

Il filmmaker newyorkese Sean Baker, dopo essersi fatto notare con Tangerine, una commedia sboccata, interpretata da due trans e girata a budget zero, con degli Iphone 5s, sulle strade di Los Angeles, conferma con Un sogno chiamato Florida l’originalità del suo sguardo, l’urgenza narrativa del suo cinema e la capacità di utilizzare benissimo anche attori non professionisti.
Il film racconta la storia di Moonee, una bambina di sei anni e del suo piccolo gruppo di amici, delle loro avventure quotidiane durante le vacanze estive.

Siamo ad Orlando, Florida, vicino agli ingressi di Disney World, dove i motel a tema, una volta utilizzati dai turisti, sono ora diventati una sorta di project, case popolari, nelle quali vivono madri sole con i figli, famiglie che hanno perso tutto, emarginati, piccoli criminali.
Il motel però non è una casa per nessuno, non può esserlo. Si vive costantemente sulla porta, sul ballatoio, nel cortile. Non c’è nessuno spazio veramente privato. Non si può costruire nulla su quella provvisorietà. Pian piano la vita di ciascuno perde identità, si confonde con quella degli altri.

Moonee e la madre Halley occupano una delle stanze del Magic Castle, un grande motel tutto viola e lilla, che sembra uscito da una fiaba. Altri suoi amici stanno a Futureland o Orangeland. Tutto il loro mondo sembra calato in una fiaba una volta zuccherosa e stucchevole, diventata ora sinistra e decadente, in cui la realtà ha superato ogni fantasia.
Il manager del Magic Castle, Bobby, cerca di mantenere l’ordine nel suo motel. Si occupa delle manutenzioni, seda le risse, allontana i malintenzionati, raccoglie gli affitti settimanali, cerca di ridare un po’ di dignità alle vite ferite dei suoi clienti.


Ogni tanto passano i servizi sociali a portare il pane. C’è uno spaccio per i beni di prima necessità. Eppure Moonee e i suoi amici sembrano sempre felici, correndo dalla piscina agli edifici abbandonati, facendo saltare la corrente o sputando sulle auto in sosta, dividendo un grande gelato, comprato con i soldi elemosinati dai turisti di passaggio.

La loro è un’estate fatta di nulla. Sembra quella dei racconti dei nostri padri, figli della guerra, nell’Italia povera e bella degli anni ’50: quando tuttavia Moonee e suoi amici inavvertitamente mandano in fumo un edificio abbandonato, i rapporti tra le loro madri si incrinano e viene meno anche la solidarietà tra emarginati, l’unica ancora possibile in un welfare disastrato e impotente.

Halley, che si arrangiava, rivendendo i profumi acquistati allo spaccio del project ai clienti facoltosi del golf club, viene scoperta dalla sicurezza e deve trovare una strada diversa per sopravvivere.
Avvolto da un’aura magica, coloratissima ed al tempo stesso terribilmente disincantata, Un sogno chiamato Florida respira l’umanità grande dei suoi personaggi e del suo autore. Baker riesce a vincere persino i limiti di un racconto minimalista su un gruppo di dropout, con la forza della leggerezza, di un’ironia malinconica, che è in fondo quella che traspare dagli occhi di Bobby, il testimone privilegiato di queste storie, un Willem Dafoe straordinario, misuratissimo, dolente. L’unico che cerca di trovare un modo per tenere assieme tutti.
L’alienazione del Magic Castel assorbe gli adulti, quelli che ci lavorano e quelli che sono costretti a viverci, ma non ha la meglio sui bambini, ribelli indomabili, monelli senza riposo, sfrontati e inconsapevoli, persino dei limiti di quell’esistenza marginale.
Il film sceglie di raccontare questo microcosmo attraverso il loro sguardo, si pone alla loro altezza, li segue, li accompagna, si lascia trasportare dalla loro contagiosa energia.

Non c’è una drammaturgia forte, nessun copione di ferro, solo un susseguirsi di momenti, di episodi, di scene, alcune riprese dal vero, come una candid camera.
Bria Vinaite, scelta da Baker dopo averla vista su Instagram, è una madre che cerca ogni scorciatoia possibile, per sopravvivere. Il mondo le ha voltato le spalle e lei risponde nell’unico modo che conosce, alzando il dito medio.
Brooklynn Prince, che interpreta la figlia Moonee, è una piccola forza della natura, trascinante, con la battuta sempre pronta, capace di ogni bugia, pur di coprire le sue monellerie.
Lei e gli altri sono solo bambini che hanno smesso troppo presto di credere alle favole, pur vivendo in un castello viola.

Anche se il finale arriva nelle vite dei suoi personaggi con un po’ troppa velocità, il film di Baker è caldo, appassionato, profondamente sentito. Un ritratto di inizio secolo tra i resti di un sogno americano corrotto e avvelenato, nel quale la vita continua a scorrere, ma non c’è più tempo per le illusioni e anche la fuga non risolve nulla: mostra solo la distanza, brevissima, tra sommersi e salvati.
Da non perdere.

UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA (The Florida project)
REGIA: Sean Baker
ATTORI: Willem Dafoe, Brooklynn Prince, Bria Vinaite
Produzione: USA, 2017
Durata: 105 minuti

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