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Cultura e Spettacolo

Lazzaro Felice, film a metà: si fa amare a lungo e poi si perde

Terzo film di Alice Rohrwacher, terza presenza al Festival di Cannes: la prima volta alla Quinzaine con Corpo celeste, la seconda in concorso con Le meraviglie, coronata dal Grand Prix du Jury, la terza con questo Lazzaro felice, un film che tenta la strada difficilissima del realismo magico, della favola metaforica, dell’apologo morale.

Lazzaro è uno dei mezzadri della marchesa Alfonsina De Luna, che coltivano un grande podere isolato dal mondo, dopo che una frana ha distrutto l’unico ponte verso la civiltà. Lazzaro, assieme ad un’altra cinquantina di contadini vive in due case coloniche di quel poco che la terra produce.

All’Inviolata, così si chiama la grande casa padronale che sovrasta i campi, si coltiva tabacco. La marchesa De Luna è una delle più grandi produttrici di tabacco del paese. Arriva all’Inviolata però solo d’estate, assieme al figlio Tancredi, occupando la grande villa liberty di famiglia.
I mezzadri sono proprietà della marchesa, vivono di pane e sardine, hanno a stento le lampadine per illuminare le stanze la sera e certamente letti non sufficienti per tutti.

Siamo negli anni ’30, forse negli anni ’50 del secolo scorso? Qualche particolare però non quadra e pian piano i misteri dell’Inviolata vengono svelati, quando il marchesino Tancredi fugge di casa e una telefonata di troppo fa crollare il grande inganno, mentre il destino di Lazzaro prende una svolta inattesa.

Non diremo di più per non rovinare le molte sorprese del film della Rohrwacher, che torna, almeno nella prima riuscitissima parte, a quel mondo contadino, umile ed essenziale, che già aveva raccontato con Le meraviglie. Qui il tono tuttavia è ancora più sospenso, elegiaco, perchè si riflette negli occhi limpidi e nel sorriso dolce di Lazzaro, ultimo tra gli ultimi, sempre pronto a dire sì, a lavorare per tutti, a ubbidire ad ogni richiesta, con un’ingenuità e una purezza di spirito, fuori dal tempo e dalla storia.

Il film poggia tutto sul suo sguardo semplice, sognante, incapace di distinguere la realtà dall’illusione, inconsapevole di sè e della sua condizione, rassegnato ad un’esistenza di puro lavoro, in cui la terra è tutto, come in un racconto di Elsa Morante, capace di intrecciare realismo, incanto poetico ed elementi fiabeschi.

E’ il racconto di un’Italia perduta, che nella dignità del lavoro e delle radici contadine trovava il senso delle cose.

Solo che il mondo isolato dell’Inviolata è un inganno e quando il film cambia registro e con un salto temporale arriva all’Italia di oggi, prevalgono note zuccherose e un certo moralismo, che vorrebbero forse richiamare i lavori di Zavattini e De Sica, ma finiscono per essere pallida imitazione di quelli, perchè soprattutto la scrittura della Rohrwacher perde colpi ad ogni momento e sembra sempre indecisa, incespicando troppe volte, sino ad un finale di rara bruttezza.

Se la sospensione dell’incredulità, necessaria ad un impianto narrativo di questo genere, era stata gestita perfettamente sino alla cesura drammatica della scoperta della vera natura dell’Inviolata, da lì in avanti il film accumula una serie di incastri e di scontri davvero troppo programmatici ed esemplari.

E’ un peccato che il film non riesca a mantenere le premesse straordinariamente efficaci della prima parte, perchè l’epopea di Lazzaro, piccolo santo contadino che visse due volte, avrebbe meritato un finale all’altezza. Straordinaria la direzione d’attori della Rohrwacher, soprattutto nella prima parte, che trova con l’inedito Adriano Tardiolo un protagonista formidabile, capace di trascinare il film con la sola forza del suo sguardo.

Come spesso accade è invece completamente fuori tono e fuori parte la sorella Alba: tanto indovinata è Agnese Graziani, che interpreta lo stesso personaggio di Antonia da bambina, tanto è deludente la sua incarnazione adulta. Con Sergi Lopez formano una coppia tutta da dimenticare.
Preziosa la fotografia pastosa e densa, in 16mm, di Helene Louvart, che dona alle immagini dell’Inviolata un realismo tangibile e benedetto.

Resta così un film a metà, che si fa amare a lungo e che poi si perde, che conferma il talento purissimo della regista e i suoi limiti di scrittura drammatica.
Un’occasione colta solo in parte.

LAZZARO FELICE
REGIA: Alice Rohrwacher
ATTORI: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Nicoletta Braschi
Produzione: Italia, 2018
Durata: 130 minuti

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